lunedì 24 maggio 2010

Le maschere di carnevale - I miei ricordi - 57

A Carnevale, anche se il paese era povero povero, un paese di guerra, non mancava mai un po' di fantasia per fare festa a modo nostro.
Intanto quasi ogni famiglia s'industriava a produrre i suoi dolci: le frappe ricoperte di bianca polvere di zucchero, le castagnole odorose di miele e di alchermes, e a ogni visita delle maschere c'era l'offerta di dolci che finiva per essere reciproca.
Il paese era già di per sé come un palcoscenico comune, nel quale ciascuno recitava la sua parte per l'intera giornata del martedì grasso.
Non c'era sicuramente la possibilità di avere delle maschere di un qualche pregio, ma ci si arrangiava con la buona volontà, rivestendo abiti vecchi aggiustati per l'occasione.
Il nostro gruppetto comprendeva anche Elisa, figlia di Cherubina, che abitava in una casa secentesca adornata di una lapide in latino e di un vistoso emblema cardinalizio attestante antiche origini nobiliari. Nel Seicento, alla cacciata dei Medici da Firenze, alcune famiglie della nobile città si erano rifugiate in Acuto, costruendovi dimore di una certa dignità, e parecchi cognomi avevano origini fiorentine.
Elisa era una ragazza molto intelligente e dinamica, ma purtroppo nella prima infanzia era stata colpita da una paralisi che ne riduceva i movimenti: ma lei lottava coraggiosamente, e voleva fare tutto ciò che facevano gli altri.
Così, a Carnevale, anche lei voleva il suo costume, e girare per le vie del paese come tutti gli altri. Un anno, volle vestirsi da nobildonna spagnola; questo comportò un lungo lavoro per una vistosa acconciatura dei capelli, con l'impiego di spille e spilloni.
Doveva aver sofferto molto, ma stretto i denti per tutta la giornata, e soltanto la sera tardi, nel liberarsi di una forcina, vide sgorgare dalla sua testa un impressionante fiotto di sangue.
Ma il divertimento di un'intera giornata (in buona parte appoggiata a me, che ero vestito da cavalier servente) l'aveva ripagata ampiamente della sofferenza patita.
Tra noi circolava la storia di Maria di 'Ccezia (Vincenza), una ragazzina un po' sempliciotta che si vantava della bontà delle pastarelle fatte dalla madre: - Mia madre ha fatto le pastarelle, con lo zucchero e con il miele. Io le ho leccate con il dito: Dio come erano buone!- Il tutto con una pronuncia piuttosto blesa e faticosa.
Maria, le pastarelle le aveva poste su una finestra bassa, a pianterreno, e due ragazzi mascherati, piuttosto maleducati, passando avevano fatto man bassa.
Maria, allora, si era messa a gridare: -Ah buzzurro! Ah sciancato!- ma inutilmente, poiché dei dolcetti materni era rimasta ben poca cosa.
La sera del martedì, in piazza San Nicola, c'era il raduno delle maschere, che si concludeva con la solenne bruciatura della strega, una pupazza di stracci che era posta ad ardere appesa alla sommità di una catasta di frasche.
Non c'era ancora la possibilità di un bel fuoco artificiale, ma ci si arrangiava in tutti i modi per fare fuoco e fiamme. L'indomani cominciavano la penitenza e il digiuno della quaresima: cioè il ritorno a quella che era la magra realtà di ogni giorno, di guerra o di pace da poco raggiunta (continua).

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