mercoledì 5 maggio 2010

La grande fuga - I miei ricordi - 42

Ci ritrovammo per alcuni giorni ciondoloni nella grande e oscura casa di zia Paolina al Piglio: ci sentivamo morire tutti e due, zia Paolina non sembrava gradire molto la nostra presenza così problematica.
Lei era abituata a una solitudine totale, rallegrata solo dall'affetto profondo di alcune amiche di lunga data, disposte a far tutto per lei.
Noi due bambini, in un paese in cui, tranne i parenti, non conoscevamo nessuno, non potevamo giocare che tra noi due.
Non avevamo nemmeno il coraggio di allontanarci dalle scale di quella casa, finché un giorno zia Paolina non si arrabbiò e ci strappò con una certa forza all'inferriata che proteggeva il fianco della lunga scala: voleva che ci decidessimo a farci coraggio, ad allontanarci, a cercare qualche piccolo amico.
Noi la prendemmo come una vera violenza, e ci aggrappammo con forza a quella inferriata.
Quando poi, a qualche mese di distanza, raccontavamo quell'episodio, ricordo che mio fratello esclamava: - Se non ci fossimo sorretti alla ringhiera...-
Così maturò la grande decisione. La mattina dopo, di comune accordo, ci allontanammo davvero, di spontanea volontà: scendemmo i vicoli e la strada sterrata che portava giù alla stazione della ferrovia Roma-Fiuggi, certamente allora inattiva in conseguenza dei bombardamenti: ma a noi interessava la strada provinciale, quella che in dieci chilometri ci avrebbe riportati al "nostro" paese, Acuto, e alla "nostra" famiglia.
Cincischiammo per qualche mezz'ora tra sassi e cespugli, senza trovare quella benedetta via: alla fine, sfiduciati e impauriti, quasi sicuri di perderci, decidemmo di ritornare su, dai nostri zii, che avrebbero voluto adottarci, ma evidentemente leggevano sui nostri volti un profondo dolore e una profonda desolazione.
Di lì a pochi giorni ci ritrovammo, assai felici, nella nostra povera ma amatissima famiglia, e nel nostro povero paese, e non li avremmo scambiati per nessun'altra famiglia e per nessun altro paese.
Bisognava stringere i denti. Mio fratello più grande, Vito, appena laureato, aveva trovato un primo lavoro a Roma, e dopo la morte di mio padre aveva preso le redini della famiglia pur avendo soltanto ventitre anni.
Arrivava finalmente un po' di denaro sicuro per tirare avanti con dignità, e ormai il nostro futuro non poteva più essere il paese, bensì la Capitale, nella quale c'era possibilità di lavoro anche per gli altri figli.
Ma per il momento, per noi più giovani, il nostro piccolo mondo di Acuto rimaneva ancora il centro dei nostri affetti e dei nostri interessi (continua).

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