Il mulino di Arcangelo sorgeva in bella posizione, dopo il vecchio albergo, e prima della fornace della calce, cinquanta metri più in là della Croce di San Sebastiano che apriva il viale di accesso al paese di Acuto.
Il mulino, sempre operoso, era frequentato anche da gente dei paesi vicini. Arcangelo in un primo tempo non si distingueva, tutto bianco di farina come il suo vasto ambiente di lavoro. Poi emergeva piano piano, alto e robusto, con un cappelletto di carta per proteggere i capelli, che ormai erano bianchi già per l'età.
Arcangelo era sempre cortese e ben educato: si vedeva che era di buona famiglia, originaria di Alatri. Di questa bella cittadina conservava il dialetto e l'accento cantilenante.
Al piano superiore del mulino, con accesso a parte, c'era la casa, una vera e propria villa immersa in un giardino ombroso e pieno di vegetazione, che si arrampicava verso la montagna retrostante.
Ai miei tempi, la via che passava accanto al mulino era sterrata, polverosa e bianca quasi quanto il mulino stesso. Oggi è una bella strada, la Statale 155 di Fiuggi, e proprio lì a fianco c'è il famoso ristorante "Le colline ciociare" di Salvatore Tassa, acutino purosangue.
Quella di Arcangelo era una famiglia molto distinta e colta. I figli erano quattro: le due maestre Maria e Mirella, che nei loro lunghi anni d'insegnamento hanno istruito un intero paese; il primo figlio maschio, Ercolino, laureato in giurisprudenza e destinato a subentrare a suo padre, assieme anche ad Adelmo, poco più grande di noi, e che confidenzialmente tutti chiamavamo Ninì.
Verso questa famiglia il paese ha un enorme debito di gratitudine. A parte le due bravissime maestre, Ninì è stato per noi un amico generoso. La loro casa aveva una splendida biblioteca, e tutti i libri più belli erano lì: l'intera collezione della Medusa, editore Arnoldo Mondadori, allora libero da ogni egida politica.
Grazie a Ninì, tutto il paese di Acuto ha letto i romanzi più belli e affascinanti. Ricordo,ad esempio, "La prima moglie, Rebecca", "E le stelle stanno a guardare",
"Le chiavi del Regno", "Niente di nuovo sul fronte occidentale", e altri capolavori che io, pur avendo soli dieci anni, leggevo avidamente.
Ninì era felice di dare a leggere i suoi libri a ragazzi e ragazze di tutto il paese: li riaveva indietro sempre puliti e intatti, perché sapevamo che lui e le sue sorelle ci tenevano moltissimo.
Ninì era inoltre generoso anche al bar, quello famoso della Pensione Roma giù alla passeggiata di San Sebastiano, il più frequentato di tutto il paese. Ninì, avendo certamente qualche soldo più di noi, spesso offriva un caffè o una bevanda ai suoi tre o quattro amici più fedeli, pur sapendo che non avremmo potuto ricambiare con altrettanta generosità. Inoltre il vero dono che ci faceva era la sua allegria, il suo modo di comunicare con spontaneità ed arguzia.
Lo rividi dopo moltissimi anni, quando insegnavo alla scuola media di Trevi nel Lazio, e mi diede un passaggio di fortuna sul suo camioncino. Generoso come sempre.
E tifosissimo della Roma: ricordo come ora il suo impressionante pallore, la sua enorme sofferenza in diretta, il famigerato 17 giugno 1951, quando i giallorossi, pur battendo per 2-1 il Milan neocampione d'Italia, retrocessero, loro unica volta, in serie B e io, laziale, dovetti consolarlo: - Ma sì, dai: sai quanto ci mette la Roma a tornare in serie A; basterà un anno soltanto - (continua).
Nessun commento:
Posta un commento