Il negozio di mio padre ( noto in paese come "la bottega di Memmuccio") in corso Umberto ad Acuto, consisteva in un unico grande ambiente, tutto circondato di scaffali pieni di stoffe e di mercerie varie. C'era poi un retrobottega più piccolo, ma ugualmente abbastanza ampio, aperto con una grande finestra sull'attuale piazza del mercato, che allora era un giardino semiselvaggio, con alberi di pino e di acacia, spesso allagato dalle piogge, e in origine era una specie di laghetto in fase di progressivo prosciugamento.
Durante il 1943-44, nel momento peggiore della guerra, quando io avevo 9 anni, cominciai a fare pressione su mio padre, assieme alla mia cugina Marisa, di tre anni più grande, perchè ci concedesse di gestire nel retrobottega una specie di sezione autonoma del negozio, per la vendita di piccola merceria: nastri, bottoni, automatici, rocchetti e sigarette di filo, e via dicendo.
Mio padre era molto buono con me e con mia cugina, e pur comprendendo che quello era soltanto un gioco, volle darci ragione, e permise di effettuare l'esperimento, con nostra grandissima gioia. La porta che conduceva al retrobottega rimase perciò aperta, e trasferimmo gran parte della piccola merce negli scaffali di cui anche quella stanza era munita.
Arrivò, infatti, qualche giovane cliente: una ragazzina di quattordici anni che chiese un metro di nastro per le trecce. Fu la nostra unica vendita, poiché ci rendemmo subito conto che era troppo il disturbo, e troppo poca la resa. Inoltre, come si sa, quando un desiderio che è soltanto tale viene appagato, e non ha vera ragione di persistere, ben presto perde d'interesse e cade da sé.
Qualcosa del genere accadde anche a noi ragazzi, che certo non potevamo stare chiusi in bottega per tutta la giornata semplicemente per vendere un metro di nastro. Così, quando mio padre ci disse che gli dispiaceva molto, ma non era possibile continuare, io e mia cugina piegammo la testa...e corremmo a giocare altrove, all'aria libera, dopo aver ringraziato il buon Memmuccio, padre così tenero da acconsentire ad appagare per un momento il capriccio del proprio figlio e della propria nipote.
Comunque l'idea di sfruttare quel retrobottega non decadde completamente. Con altri cugini, come Augusto, Letizia, Anna ed altri ancora, vi fondammo una piccola città, Bidomo, cioè "Duecase", in cui ciascuno di noi aveva un nome nuovo, esercitava un proprio mestiere e serviva la piccola comunità. Una specie di città dei ragazzi, con tanto di sindaco, di farmacista, di erbivendola e di altre professioni.
Gestivamo anche una moneta nostra, fatta di bottoni di varia taglia. Ma eravamo un po' più grandi di età, mio padre non c'era più, la sua memoria era sempre viva tra noi, il negozio di corso Umberto tirava avanti alla meglio nelle mani di mia madre, alla quale non dispiaceva la compagnia di piccoli figli e nipoti che rendevano un po' più serena la sua giornata.
Giochi di bambini che sognavano di diventare grandi, e spendevano con felicità quegli ultimi scampoli di spensierata fanciullezza ( continua ).
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