venerdì 28 maggio 2010

Il forno di Cència - I miei ricordi - 61

In tutto il paese di Acuto, c'era un solo forno pubblico: il forno di Cència.
Forse me ne viene in mente un altro, ora che ci penso bene, ed era il forno dei Desiderati, nella parte vecchissima del paese, giù a San Pietro: ma quello era un mondo completamente diverso, si lavorava in piccolo, poche famiglie intime, poco più di un forno privato.
Cència lavorava in grande. Una specie di fabbrica, coi suoi ritmi, i suoi tempi, un ciclo ripetitivo organizzato quasi industrialmente.
Il forno di Cència si trovava proprio in fondo a Piazza Margherita, sotto le finestre di mia nonna Livia, vicinissimo al Vialozzo, zona oggi bonificata, ma allora peggio di una palude. L'igiene di quei tempi non era molto raccomandabile: se ne aveva tutta un'altra concezione.
Ma Cència era separatissima da ogni altro ambiente: una siepe molto alta la divideva da ogni contatto esterno. Per tutta la piazza si diffondeva il profumo (ma anche il fumo...) di quel magico forno.
Cència era coadiuvata da poche altre lavoranti, per la sua industria tutta al femminile. Una lavorante, che potremmo chiamare l'araldo, faceva l'intero giro del paese per tre chiamate, corrispondenti alle tre fasi della lavorazione del prodotto: ammassare, portare, ritirare.
La lavorazione del pane riguardava ciascuna delle famiglie. Ogni famiglia aveva il suo turno settimanale. Mia madre mi sembra che avesse il lunedì. Lei doveva organizzarsi per la sua fornitura di sette giorni : sette enormi pagnotte che miracolosamente si mantenevano fresche fino al lunedì successivo, grazie a un lievito di cui veniva salvata una piccola parte per la successiva settimana. La matrice di un lievito poteva mantenersi viva per mesi e mesi.
Su quel lievito bisognava lavorare fin dalla sera precedente. Poi, alle 7 del mattino, passava la donna-araldo che strillava sotto le finestre: - Geltrude, ammassa!- - Giulia, ammassa! -
Dopo circa tre ore, ecco la seconda chiamata: -Geltrude, porta! -
Mia madre, che aveva preparato accuratamente le sue sette pagnotte, le sistemava in una lunga spianatoia di legno coi bordi rialzati, la scifa, la ricopriva con una coperta, e la sistemava sul capo di una donna incaricata di condurla al forno di Cència, che continuava a lavorare e infornare senza tregua, in quella sua fucina ardente.
Ritmi precisi e veloci. Sette/otto minuti di forno e le pagnotte erano pronte, odorose e con una crosta dorata e croccante.
Nel frattempo la donna-araldo aveva compiuto il suo terzo giro per le strade del paese, gridando: -Geltrude, riporta! -
E ogni cliente doveva andare a ritirare il suo pane, con la sua scifa, al momento stabilito. Pagava il dovuto, che si calcolava sulla mezza lira a pagnotta, che ogni massaia cercava di fare più grande possibile per risparmiare. Tre lire e mezza, per noi: il pane per un'intera settimana per una famiglia di nove persone.
Un pane così buono, e che si manteneva così fresco, oggi certamente nessun forno saprebbe produrre. Ma Cència, con la sua legna e le sue frasche, nella sua fucina che somigliava a un antro infernale, ogni giorno, tante volte al giorno, sapeva compiere il magico ed economico miracolo.
(continua).

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