Io vedevo in Abate quel fratello maggiore che avevo perduto, in sostituzione della figura paterna di cui avvertivo profondamente la mancanza. Dovevo ancora maturare fino in fondo la mia personalità completa. Una sera chiesi ad Abate, proprio per combattere la mia solitudine, se consentiva di ospitarmi qualche sera nella sua casa al quartiere Prati anziché tornare nel mio lontanissimo appartamento di Viale dei Romanisti che sentivo ancora profondamente estraneo.
Abate rimase sbalordito, e inaspettatamente mi rispose in modo sgarbato che non se la sentiva di rischiare, di fronte agli abitanti del suo vicinato, l'apparente omosessualità della situazione. Stop. Non mi sarei davvero aspettato una risposta così amara e così profondamente offensiva.
Forse è per questo che del collega Abate, apparentemente vicino e amico, la mia memoria non ha conservato nemmeno quel minimo di amicizia che può essere costituito dal ricordare il suo nome. Pur essendo molto ricco, nelle moltissime cene consumate insieme, cosa che indubbiamente doveva far piacere anche a lui, si limitava a un pagamento alla pari, magari aggiungendo quelle mille o duemila lire tanto perchè fosse evidente la sua superiorità nei miei confronti.
Inoltre ricordo che, del nostro rapporto familiare, andava parlando con altri amici come se si trattasse di una cosa strana, discutendo apertamente della figura del mio fratello maggiore, di cui troppo spesso gli parlavo sottolineando la maniera brusca con cui mi si era scrollato di dosso all'improvviso forse per far maturare finalmente la mia personalità.
Di tutti noi scapoloni che eravamo, Abate fu l'ultimo che rimase tale fino alla fine, per quel che io ne so: forse era quello che aveva più bisogno di maturare ancora.
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