Un altro collega che mi fu molto vicino in un momento particolarmente difficile della mia vita fu senz'altro il napoletano-romano Abate. La cosa strana è che di lui non ricordo assolutamente il nome. Ricordo benissimo, invece, che nell'estate del 1970, quando mi ritrovai solissimo in casa per una specie di ciclone che aveva colpito la mia famiglia, lui mi fece molta compagnia.La maggior parte delle sere cenavamo insieme in qualche piccolo ristorante romano.
La mia solitudine era assoluta: abitavo da solo nel mio nuovo appartamento in Viale dei Romanisti, avevo rotto i rapporti con tutta la mia numerosa famiglia. Mio fratello maggiore, Vito, a 48 anni di età, dopo averci fatto da padre per 26 anni, aveva deciso all'improvviso di sposarsi scrollandosi di dosso tutti i fratelli che fino a quel momento avevano vissuto con lui, ma che ormai si erano sistemati quasi tutti sposandosi a loro volta.
Con Vito rimanevamo solo in tre: io, mia sorella Amalia e mia madre. Amalia, in quel momento, lavorava in Calabria come istitutrice di una picola bambina in una ricca famiglia, io avevo cominciato a insegnare da pochissimo, e mio fratello maggiore, che stava finalmente per sposarsi con Angela, una giovane donna barese conosciuta un anno prima, aveva deciso di portare con sé mia madre.
Io rimanevo solo nella mia nuova grande casa di Viale dei Romanisti, nella quale vivevo molto a disagio perché odiavo la sua assoluta solitudine.
Il collega Abate viveva a sua volta solo in un appartamento principesco - secondo la sua descrizione - al quartiere Prati, in realtà un palazzo nobiliare avuto in eredità. Abate, laureato in filosofia, insegnava italiano nella media di Bellegra, ma era in attesa di una nomina alle superiori per la sua amatissima filosofia, come avvenne negli anni seguenti.
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