Dovevamo fare la spesa da soli, cucinare da soli, lavare i piatti e le pentole, rifarci i letti e tenere in ordine la casa, sicché, a farla breve, nel giro di una settimana decidemmo di rientrare nella nostra comoda pensione, perdonati senza rancore dalle signorine Edia e Sistina, e accolti volentieri da quel paio di colleghi che non avevano aderito alla nostra ribellione.
Per tanti motivi, insomma, pure se la residenza a Trevi era sempre piacevole, le passeggiate frequenti e le gite nei dintorni una necessità per spezzare la monotonia, non c'era più quel clima di entusiasmo e di idillio che aveva regnato nella stagione precedente.
Ad aprile, poi, un provvedimento emenato dal Ministero ci lasciava la possibilità di trasferirci in qualche cittadina più evoluta, tipo Fiuggi o Anagni, e successivamente nelle nostre province di origine, nel mio caso Roma.
Questo finì per allentare del tutto i nostri legami con Trevi e con tutto il cordiale ambiente che avevamo intorno, amicizie e frequentazioni. Cominciammo a sentirci provvisori, sempre con un piede alzato come quei colleghi che preferivano rientrare quotidianamente a Roma e consideravano Trevi come un vero e proprio esilio.
Credetemi, non c'è niente di peggio, per un insegnante, di questo stato d'animo, che spezza quasi ogni legame con gli alunni, rendendo tutto aleatorio e provvisorio. Il primo a voler andare via era il preside, e tutti noi seguivamo, volere o non volere, il suo cattivo esempio.
Gli unici che si sottraevano a questo clima erano due insegnanti del posto, sposati e legati al paese con tutta la loro famiglia. Per essi, Trevi continuava ad essere il piccolo paradiso che anche noi avevamo conosciuto l'anno precedente.
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