Il secondo anno a Trevi nel Lazio fu ugualmente bello, ma non del tutto tranquillo. Cambiaromo molte cose: innanzitutto il preside, che veniva da Roma e si sentiva provvisorio, sicché s'impegnava nel suo lavoro in modo relativo. Era un ingegnere, ed aveva altro per la testa.
Intanto, era obbligato a completare il suo lavoro con quattro ore di matematica, e questo contatto con le classi gli risultava pesante, sicché mollava spesso e volentieri quelle ore assegnando delle supplenze che quasi sempre finivano sulle mie spalle: penso che avesse messo dei "buchi" nel mio orario considerandomi docile e paziente.
Per un po' resistetti, ma dopo circa un mesetto esplosi in una protesta che certamente non si aspettava, e che lo mise in difficoltà. Ma io non mi sentivo di vedere aggravato così pesantemente il mio orario, e chiesi che qualche ora di supplenza venisse assegnata anche ad altri colleghi.
Questi ed altri erano motivi di malumore. C'erano stati molti trasferimenti anche di colleghi, e per esempio se n'era andato a Roma Gianni Fiore, che era un po' il beniamino sia della scuola sia della pensione in cui vivevamo noi professori.
A un certo punto, si creò in me e nel collega di Avellino Gerardo Festa un po' di tensione con le proprietarie della pensione Edia e Sistina, sicchè decidemmo di lasciare la pensione e di trasferirci in una abitazione privata appartenente al falegname Ovidio, una persona molto simpatica anche se nel suo laboratorio al pian terreno fabbricava bare per i morti: il cimitero era lì a due passi e la sera tardi, quando rientravo a casa nel buio più profondo, passare lì davanti ti faceva venire i brividi.
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