Lalli spiegò chi era quello Jadic che aveva scritto sull'argomento, spiegando che ero un giovanissimo giornalista.
I Di Veroli vollero conoscermi, e mi invitarono al loro bel negozio a Torre Argentina, facemmo amicizia, e nel congedarmi mi riempirono un grosso cartoccio di confetti colorati tipo Sulmona da portare a Riccardo Lalli. Ovvio che una parte di questi confetti era anche per me, ma io, come sempre ossequioso e timido, non osai toccarne nemmeno uno, e nemmeno uno me ne fece assaggiare il buon Riccardo Lalli, che in queste cose non era mai splendido. Io ci rimasi molto male, ma che volete farci: i miei genitori mi avevano insegnato questo tipo di educazione.
I miei primi articoli al Tifone facevano un certo effetto, ma Lalli era molto parsimonioso nei suoi elogi, e magari ogni tanto mi ricompensava con grosse firme.
Io portavo anche fortuna alle squadre che seguivo. La Lazio, infatti, quella estate vinse il suo primo trofeo importante, la Coppa Italia, con Fulvio Bernardini, che lanciò anche un paio di ragazzi interessanti tipo Franzini e Fumagalli.
Un giorno, durante un allenamento alla Rondinella, accanto allo Stadio Flaminio, un pallone era finito fuori dal campo, e io cercavo di rinviarlo con i piedi scavalcando la staccionata. Al primo colpo non mi riuscì, e allora Fulvio strillò: "Non ci riuscirai nemmeno fra dieci anni!" Io testardamente riprovai, e al secondo colpo ce la feci, rispedendo il pallone proprio ai suoi piedi. Fulvio non disse nulla, come del resto io, e successivamente mi confessò di aver apprezzato la mia sensibilità.
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