Mio padre morì giovane, a soli 47 anni, e in modo del tutto inaspettato. Erano passati appena cinque mesi dall'arrivo degli alleati, la guerra si era spostata al nord, ma noi avevamo già riaperto le porte alla speranza, e piano piano la vita riprendeva.
Con lo spirito d'intraprendenza che contraddistingueva la sua famiglia di commercianti, che nel giro di due generazioni si era diramata dall'originaria Caserta via via verso il nord, Memmuccio, come lo chiamavano tutti con un diminutivo affettuoso, nel 1940 aveva concepito l'idea, piuttosto audace, di spingersi fino a Roma con un suo negozio di tessuti.
Vi era riuscito con un certo successo, e certamente puntava a trasferirsi al completo con la famiglia una volta che la guerra fosse finita. Il negozio era in via Marmorata, nei pressi della Piramide Cestia, non lontano quindi dal popolare quartiere di Testaccio.
Il negozio di Acuto invecchiava, bastava la gestione di mia madre a condurlo alla meglio, dati i tempi di magra e gli scaffali via via più vuoti. Mio padre tornava a casa ogni sera, e mi raccontava delle nuove amicizie che si stava facendo a Roma; in particolare mi parlava di un bambino mio coetaneo, otto o nove anni, che avrebbe voluto conoscermi. Ricordo bene questi racconti vicino al focolare, perché furono in pratica gli ultimi.
Quell'anno le scuole non si erano riaperte, e per me era un grosso dispiacere, perché amavo molto leggere e scrivere, stare insieme alla maestra e ai compagni. Avrei dovuto frequentare la quarta, ma il fronte di Cassino distava pochi chilometri, e i bombardamenti erano troppo frequenti perché la vita potesse svilupparsi in modo ordinato e funzionale.
I libri scolastici, sempre più brutti ed oscuri perfino nella carta e nella stampa, quell'anno non furono neanche distribuiti. Il mio fratellino più piccolo, Luciano, avrebbe dovuto frequentare la prima elementare, ma l'esordio veniva continuamente rinviato.
Allora io presi un quaderno, e in base ai ricordi degli anni scolastici precedenti ebbi la pretesa di vergare, con la matita e perfino con dei disegni, un personalissimo abbecedario "ad usum delphini", col quale avrei preteso di erudire mio fratello.
L'insuccesso fu cocente, sia perché Luciano si rifiutava di accettare un testo del genere, sia perché mio padre, che di solito era generoso di consensi nei confronti del mio iter scolastico, espresse qualche riserva sulla bontà del prodotto, facendomi notare, ad esempio, che le U maiuscole erano troppo strette nella parte alta.
Non ricordo bene come poi andò a finire, ma a un certo punto, forse dopo Natale, le scuole in qualche modo riaprirono, e sia io che mio fratello potemmo frequentare abbastanza regolarmente le nostre lezioni.
L'edificio scolastico, cannoneggiato sei mesi prima, era stato parzialmente recuperato, anche se da qualche tetto pioveva e si andava avanti con le bacinelle (continua).
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