Nel vedermi a Trevi nel Lazio, in questo paesetto sperduto tra le montagne della Ciociaria, certamente Franco Evangelisti non provò gioia. Io conoscevo molti lati brutti del suo carattere e anche qualche trascorso politico discutibile, il suo disinvolto modo di muoversi tra politica e affari, il famoso "Fra', che ti serve?" di uno di quei pezzi grossi che facevano parte della P2, e Franco si era fatto perfino gloria di raccontare un episodio del genere.
Invece di appoggiarmi a Franco Evangelisti per chiedergli di aiutarmi a far carriera nel giornalismo, io avevo continuato a fargli gli occhiacci, mentre il giovane e furbo Lino Cascioli si era dato molto da fare per arrivare cominciando dal Tifone, col sostegno aperto di Franco e soprattutto del fratello minore Gilberto, pezzo grosso della RAI, del pugilato e del giornalismo sportivo, bruciando le mie possibilità.
Quel contatto improvviso, dopo tanti anni d'incomprensioni e di cattivi rapporti, fu la piena conferma che io e gli Evangelisti eravamo di due mondi diversi, pur essendo nello stesso campo politico: loro del mondo del tutto facile, del tutto possibile, del tutto ottenibile, io invece del mondo della pagnotta conquistata con fatica, della superbia e dell'arroganza negli atteggiamenti, della stupida convinzione di essere nel giusto sul piano morale: e non c'è di peggio che questo atteggiamento nei confronti di quelli la cui barca va e continua ad andare anche quando c'è vento di tempesta.
A me non restava che un senso di amara disillusione, consolandomi soltanto al pensiero che, con la scuola, ero almeno libero di fare il mio dovere rendendo conto unicamente alla mia coscienza.
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