Nel settembre del 1953, dunque, rientrai finalmente a casa dopo ben otto anni di collegio. Eravamo diventati romani. Addio vecchi paesi di montagna e di collina.
La casa aveva soffitti altissimi, era una di quelle case umbertine costruite immediatamente dopo l'avvento dei Savoia a Roma, tra il 1870 e il primo Novecento. Non c'era traccia di riscaldamenti: d'inverno il freddo era pungente, ci si riscaldava con qualche stufetta elettrica.
La casa era abbastanza grande: salone, ingresso, cucina, stanzino e due camere da letto. Noi eravamo sette, e sfruttavamo per i lettini tutti gli spazi possibili.
In compenso, eravamo in posizione centrale: il vicino mercato di piazza Vittorio era molto comodo, e i mezzi pubblici, come il filobus 71, ci collegavano in pratica con tutta Roma. Le macchine private erano rare. Nessuno di noi riuscì ad averla prima del 1960, l'anno delle Olimpiadi.
A lavorare erano in due: il primogenito Vito, laureato in giusisprudenza, era entrato da alcuni anni al Banco di Napoli, e la casa di via Carlo Alberto era di proprietà del Banco; e il secondo fratello maschio, Silvestro, che per il momento aveva lavori saltuari, ma ben presto si sarebbe sistemato in una eccellente compagnia belga di riassicurazioni.
Il momento brutto, dopo la morte di mio padre, era ormai alle spalle, ma certamente Vito si sacrificava per tutti, rimandando alle calende greche la possibilità di un matrimonio che sarebbe avvenuto solo nel 1970, alla rispettabile età di 48 anni.
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