Andammo a riposare un'oretta prima della partita, e ricordo che questo atteggiamento di De Cesari mi pesò talmente da doverne piangere. Io ero comunque nello stato d'animo di chi sta per staccarsi da una professione amatissima, sentita però come proibita da certe situazioni e da certi atteggiamenti di pretesa superiorità.
Ormai il mio animo era concentrato sulla scuola, e quegli ultimi scampoli di giornalismo sportivo riuscivo a tollerarli con un certo senso di rassegnato distacco.
In quel momento maledissi, con piglio dantesco, De Cesari e tutti i livornesi come lui, arroganti, presuntuosi e sboccati, fruitori di una situazione di privilegio procurata con raccomandazioni ed agganci e chissà fino a che punto veramente meritata di suo.
Ma il mio, in quel momento, era un odio davvero comprensibile per la sopraffazione di cui mi sentivo vittima.
Era la stessa estate di Picchio De Sisti alla Fiorentina e di Ghirelli che sparava dai tetti, e anch'io mi sentivo nell'anima una gran voglia di sparare e di vendicarmi.
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