Feci amicizia anche con i dirigenti giallorossi, che mi presero in simpatia. Mi ero inserito bene, i miei servizi al gionale erano apprezzati, e naturalmente uscivano tutti in prima pagina: la Roma trovava ampi spazi al Corriere dello Sport.
In redazione, però, ero guardato con una evidente antipatia, perché quel lavoro era svolto di norma da un giornalista già affermato, e non da un pivellino come me. Avevo 25 anni, ed ero entrato al "Corriere" soltanto un anno prima, mentre giornalisti professionisti, prima di arrivare a quel livello, avevano fatto una lunga gavetta di anni e anni, come Mario Pennacchia.
Qualcuno si era legato al dito questa mia affermazione, e stava aspettando solo il momento di farmela pagare, anche perché non ero assolutamente protetto né professionalmente né sindacalmente. Prima di diventare professionista avrei dovuto fare il "praticante", e il praticante veniva designato dalla proprietà ogni diciotto mesi, a suo insindacabile giudizio. C'era moltissima gente che lavorava nell'ombra per scavalcarmi, e non c'era nessuno disposto a prendere impegni per me. A quel livello lavoravano le famiglie, e la mia famiglia era del tutto assente, perché aveva altri problemi.
Durai comunque altri tre anni, sempre curando la Roma. Ma sarebbe occorsa la spallata giusta a mio favore, e questa spallata non venne mai. Io ingenuamente aspettai, credendo che bastassero solo le buone qualità per l'affermazione professionale. Oltretutto, il 1960 fu un anno molto agitato politicamente, e dominato da un evento sportivo che poneva altre questioni in secondo piano: le Olimpiadi di Roma.
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