Prima di mollare del tutto l'università, con grande dispiacere di mia madre Geltrude e di mio fratello Vito che fungeva da capofamiglia, riuscii a togliermi una bella soddisfazione alla Sapienza: superare l'esame scritto di latino al primo tentativo, mentre c'era gente che cadeva sotto l'inesorabile mannaia di Ettore Paratore anche per cinque o sei esami consecutivi.
Eravamo in 350, quella volta, nell'aula magna. Paratore si divertiva a dare versioni, rigorosamente dall'italiano in latino, ricche di neologismi difficilmente traducibili e non registrati nei vocabolari classici, come "comunisti", "patto atlantico", "ONU" e via dicendo. Oltre che conoscere bene grammatica e sintassi, bisognava anche saper interpretare il pensiero.
Subito mi si piazzò vicino una ragazza un po' avanti con l'età. - Sono al mio decimo tentativo - confessò; e di tentativi se ne potevano fare solo due ogni anno. Il terrore era non solo quello degli errori, ma anche quello del copiato: due versioni risultate uguali venivano inesorabilmente bocciate entrambe. Ricordo che tra i numerosi e terribili assistenti di Paratore ce n'era uno di Palestrina: il professor Cicerchia, uno dei più severi insieme a Ussani e Questa.
A un certo punto, per convincere la ragazza che avevo vicino a mollarmi, usai uno stratagemma: al verbo "oboedio" feci seguire un accusativo invece dell'ovvio dativo, e la mia fedele e vigile amica subito me lo fece notare.
Il risultato arrivò di lì a un mese: la ragazza ce l'aveva fatta all'undicesimo tentativo, sia pure con un 6, e aveva il cuore in paradiso. Io ebbi l'enorme soddisfazione di un 7, uno dei cinque dell'intera commissione.
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