Come studente universitario, non feci mai nulla di particolarmente meritevole. Ascoltavo le lezioni di quei grandi professori, con l'aula magna sempre affollata anche perché la presenza era obbligatoria e registrata.
Spesso prendevo appunti, ma poi rimanevano lettera morta sui miei quaderni: anzi, no, era solo su quelli che applicavo la mia attenzione, ignorando praticamente i testi.
Durante le lezioni di storia dell'arte medioevale, tenute al buio per mezzo di diapositive dall'esimio professor Geza De Francovich sui sarcofagi ravennati, ebbi la pazienza e la perseveranza di riempire due album fitti fitti di appunti redatti con calligrafia microscopica. Alla fine del corso, il professor De Francovich mi fece l'onore di chiedermi quei due album, e da questi vennero tratte le dispense per l'anno scolastico.
Quindi andai a sostenere l'esame, che era uno dei più duri e di solito veniva ripetuto due o tre volte, il professor De Francovich mi ringraziò e poi mi mise un bel 23 che fotografava il mio profitto, senza il riconoscimento di alcun merito particolare. Comunque fu per me un grande onore, anche perché i miei appunti erano redatti con una certa cura e proprietà.
L'esame che mi diede più soddisfazione, dei miei primi cinque, fu proprio quello che temevo di più, cioè quello di Pedagogia. Io avevo prescelto Pedagogia con il professor Aldo Visalberghi, e la materia mi appassionò, anche se finii per studiarla con i miei soli appunti, senza libri e quindi in modo non completo. Ottenni comunque un bel 27, che di quei tempi era considerato un voto abbastanza prestigioso. In pedagogia ho poi svolto la mia tesi, quando ripresi gli studi dopo ben sette anni d'interruzione dovuti alla mia completa dedizione al giornalismo sportivo dal 1958 al 1964.
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