La bottega di zia Maria, quindici metri più in là di piazza San Nicola, era l'ultima risorsa del paese verso la parte più antica, quel quartiere di San Pietro che era un dedalo di vicoli e di case antichissime, senza alcuna concessione alla modernità.
Era una bottega piccola e ben tenuta, quattro metri di larghezza per sei di lunghezza, una finestra ad altezza di persona, due banconi ad angolo, una parete coperta di scaffali, una bella bilancia di brillante ottone a due piatti.
C'era una povertà estrema, in quegli anni di guerra, e se ne avevano prove continue. Zia Maria riusciva a venire incontro anche alle richieste più esigue: mezz'etto di marmellata, due etti di spaghetti, due alici. Moneta ne circolava pochissima, e la povera gente, prima di staccarsi anche da un soldino, se lo girava per le mani più di una volta. Del resto, i viveri cominciavano a scarseggiare, c'era il tesseramento, i rifornimenti diventavano ogni giorno più difficili.
Ricordo che l'emergenza del sale fu la più dolorosa. Fummo costretti a mangiare cibi sempre più insipidi e di peggiore qualità. L'ultima riserva di sale, per zia Maria, fu quella delle aringhe, che vennero dissalate accuratamente, e il resto, raccolto in una specie di botticella, venne rivenduto in piccolissime quantità, con il cucchiaino, come si trattasse di un genere di lusso.
Proprio alici e aringhe furono tra le ultime risorse della bottega, e noi bambini le consideravamo delle vere squisitezze, e ce le contendevamo per le nostre ultime merende.
Passò il turbine della guerra, il negozio di zia Maria rimase chiuso per alcuni mesi, e fu proprio quello il periodo più terribile. La gente non sapeva più che cosa mettere in tavola, erano scomparsi anche l'olio e la farina, ci si accontentava delle ultime patate , e fortunati quei contadini che le potevano ancora produrre e ne avevano potuto fare una piccola riserva.
Ricordo la corte spietata che le mie cugine facevano al vecchio contadino Neno e a sua moglie Pasqua quando la sera tornavano dalla campagna con il loro asino, portando con sé prelibatezze come i fichi o le pere, o le fresche verdure che emanavano odori paradisiaci, o anche qualche cesto di patate o di zucchine: meraviglie divenute rare e preziose.
Poi gli alleati ci aiutarono con il loro scatolame, e in qualche modo riuscimmo a sopravvivere con gli aiuti Marshall che venivano dall'America. Wurstel e minestra di piselli in polvere divennero il nostro pasto quotidiano.
Quando riaprì il negozio di zia Maria, fu una felicità per tutto il vecchio quartiere di San Pietro. La moneta di scambio fu costituita dalle Am-lire, carta di piccolo taglio; poi ricomparvero le vecchie monete in centesimi e in mezze lire, e piano piano si tornò alla normalità. Ma da zia Maria le richieste base rimasero il mezz'etto di marmellata e i due etti di spaghetti, che venivano avvolti in una grezza carta gialla di paglia.
Io entravo spesso nel negozio di zia Maria. Facevo compagnia alle mie due cugine Maria Luigia e Maria Pia, che davano spesso una mano alla madre.
Ricordo i barattoli di cetrato e quelli delle caramelle vendute sfuse, delle drops per lo più senza involucro, o delle liquirizie, piccole ghiottonerie, e quella alice che, divisa in due per lunghezza, costituiva la nostra gustosa merenda con una fetta di pane condita con un po' d'olio d'oliva.
Ma già si tornava a respirare, dopo quegli orribili quattro anni di guerra. Il negozio di zia Maria si riprese e tornò a fiorire, qualche moneta in più cominciava a rivedersi anche nel poverissimo quartiere di San Pietro, e la gente tornava a vivere e a sorridere come se niente di brutto e di cattivo fosse mai accaduto (continua).
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