Ora, col senno di poi, mi pento di aver commesso in modo clamoroso l'ingenuità di sottolineare l'errore del preside: per tutti i colleghi, da quel momento, io divenni apertamente l'insegnante irrequieto e maleducato che si permetteva di correggere il proprio preside, e dunque un ribelle dichiarato che andava punito e richiamato all'ordine.
Questo mio gesto sconsiderato può spiegare benissimo perché, da quel momento, io venni considerato dal mio preside un antagonista e un oppositore aperto al suo potere. In realtà si trattava di uno strapotere poggiato su fragili basi culturali, al quale nessuno dei colleghi suoi stretti amici, e ce n'erano di assai preparati e intelligenti, pensò mai di dare un vero sostegno limitandone gli eccessi peraltro ogni giorno più evidenti.
D'altro canto io stesso, dentro di me, ho desiderato che il preside mi chiamasse a colloquio riservato, nel corso del quale avrei voluto chiedergli scusa del mio atteggiamento talora ribelle, e proporgli una mia sincera collaborazione. Ma il mio preside, nel corso dei lunghi anni in cui abbiamo lavorato insieme, e in particolare nei primissimi tempi, non sentì mai il dovere di chiedermi spiegazioni, mai ebbe l'umiltà di convocarmi e di cercare una stretta di mano che volentieri gli avrei dato. Fu per tal motivo che, fino all'ultimo, tra lui e me ci fu incomprensione e freddo distacco, anche se dentro di noi, forse, c'era sempre la speranza inconfessata di un'amichevole riconciliazione.
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