A un certo punto della mia carriera, cominciò a balenarmi un'idea: quella di fare il concorso a preside e cercare di chiudere i miei anni di lavoro con un grado un po' più alto, anche per guadagnare quel poco di più che mi desse un segno di progresso e di ascesa. I miei ultimi cinque o sei anni avrei voluto chiuderli da preside, non perché fossi ambizioso, perché altrimenti avrei dovuto pensarci un po' prima, e non a sessant'anni.
Ma nel mio istituto, proprio mentre io stavo programmando questo pensiero, arrivò un preside locale, deciso cioè a restare lì fino al termine della sua carriera, e così il mio sogno si concluse bruscamente.
Anche questo preside, purtroppo, faceva parte della categoria di coloro che avevano scelto questa professione non perché appassionati di didattica e di scuola, bensì soltanto per sfruttare il più possibile quel ruolo di preminenza. Più forte fu perciò la mia delusione, e istintivamente cominciai a remare contro una situazione che non mi piaceva e cominciava a diventarre sempre più pesante.
Il preside aveva forse intuito questo mio stato d'animo, e cercò di aiutarmi ad affrontare ugualmente il concorso. Ma ormai non avevo più alcun interesse: ero sul limite della pensione, e decisi soltanto di trascorrere i residui anni della mia professione nella succursale di Cave, cioè a due passi da casa mia.
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