Forse il collega non fece nulla per prendersi una vendetta o per punirmi per la mia indifferenza, ma sicuramente non aiutò mia figlia, che pur essendo andata piuttosto bene alle prove di esame non riuscì a prendere un voto superiore al 42 (media dell'8 e non del 10 come era il 60). Il voto massimo lo ebbero invece i quattro studenti che avevano accuratamente preparato lo scenario, compresa la figlia della mia collega, che sicuramente non era mai stata così nettamente migliore di mia figlia: anzi...
Quel collega, col quale in realtà non avevo mai avuto rapporti, nè di amicizia nè di contrasto, lo incontrai un paio di anni dopo in un viaggio a Roma, dove eravamo capitati insieme durante le prove di un campionato di scrabble di cui eravamo entrambi appassionati. Mi invitò a rientrare nella nostra cittadina con la sua auto, cosa che evitai accuratamente proprio per non farlo sentire a disagio per il modo in cui si era comportato nei confronti di mia figlia, della quale peraltro si ricordava benissimo, tanto è vero che mi chiese come si stesse comportando all'università.
Io risposi con la massima cortesia, non manifestando alcun rancore, come è nella mia natura per la quale faccio a meno di andare intorno raccomandandomi per me e per i miei figli. Una cosa, purtroppo, che al giorno d'oggi è veramente dannosa, dato che tutto va avanti per conoscenze e per spinte più o meno sollecitate. Io mi aspetto sempre di andare avanti nella vita per meriti miei, e altrettanto mi aspetto che facciano i miei figli, ma debbo rendermi conto che è un atteggiamento assolutamente sbagliato e improduttivo. Si chiama meritocrazia, ma, ahimè, in questo periodo non la conosce proprio nessuno.
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