La nostra vicina di casa, ad Acuto, era Giulia Baretta, che in dialetto vuol dire berretta.Una vecchia signora sempre in movimento, con una torma di nipoti, parenti di vario genere che spuntavano come funghi, specialmente in estate. Dico questo perché i nostri due terrazzi sul vicolo Gaudente erano praticamente uno solo, diviso da un muretto basso e da una ferrata con punte acuminate per impedire il passaggio.
Eravamo contigui, e lo stesso senso di familiarità che avevamo noi con lei e con tutti i suoi parenti ( ad esempio, una cognata dallo strano nome di Eurosia, che abitava a Roma ) era sicuramente ricambiato. Ci legava un affetto vivo e cordiale, ben difficile da provare oggi tra vicini.
Giulia era di famiglia contadina, produceva olio, vino, grano e frutta da una sua lontana campagna, che richiedeva la proprietà di un asino per i trasporti e di una stalla nel vicolo per ospitarlo. La sua porzione di terrazza era completamente diversa dalla nostra: pullulava sempre di profumati prodotti della campagna, fave, insalate, mele, olive dolci, fusaglie. Per noi bambini del terrazzo accanto erano una continua tentazione. Irresistibili erano poi i fichi bianchi, i ficoroni, quanto mai appetitosi.
Giulia li stendeva al sole su un panno bianco a farli seccare. A certe ore e in certe stagioni, il suo terrazzo si concedeva larghe pause di solitudine e di silenzio, e a noi bambini era difficile, specie negli anni di fame della guerra, resistere a quella tentazione.
Ricordo (e confesso con un po' di colpa) che alla lunga non resistevo: armato di un lungo bastone alla cui punta legavo stretto stretto un ferro di calza, lo infilavo nello spazio tra un tondino e l'altro dell'inferriata, e facevo facilmente preda di un paio di fichi bianchi ormai secchi. Che delizia! Giulia ogni tanto dava un'occhiata alla sua distesa di fichi, e non poteva non notare qualche vuoto. Perdonami, cara vicina di casa, da quella nuvoletta felice su nel cielo dove sicuramente ti trovi.
Però io ebbi il modo davvero di farmi perdonare, una volta. Era d'estate, e la casa di Giulia era piena di nipoti e nipotini, qualcuno probabilmente figlio della simpatica cognata Eurosia.
Il balcone di Giulia dava, come ho detto, sul vicolo Gaudente, ma in una zona alquanto più alta rispetto a noi, dato il rapido declinare dei gradoni. Inoltre, mentre il nostro terrazzo era protetto da una robusta spalliera in cemento istoriato, quella di Giulia riproponeva un'inferriata con spazi piuttosto larghi fra un tondino e l'altro. Ora un nipote di un anno o due, di nome Ezio, che stava muovendo i primi passi, si era spinto fra due di quei ferri, e, tenendosi con le due mani, si stava sporgendo assai pericolosamente verso il vicolo, all'altezza di circa dieci metri.
Sarebbe bastato che mollasse anche una sola mano, e...Sul terrazzo non c'era nessuno. Dalla mia parte c'ero solo io, bambino di otto anni, semiparalizzato dalla paura. Ebbi il coraggio e l'avvertenza di chiamare Giulia a voce molto bassa, da conversazione, per non spaventare il piccolo Ezio. Giulia per fortuna mi sentì, uscì sul balcone, e anche lei, con la più grande calma possibile, anche se il gelo percorreva le sue ossa, riuscì ad afferrare Ezio e a riportarselo in salvo nel più perfetto silenzio.
Giulia non mi ringraziò a parole. Era una cosa troppo importante da compensare con parole. Ma con l'affetto e la gratitudine sì. Da quel giorno la ferrata fu completata da una rete di fil di ferro che poneva al riparo i bambini da ogni pericolo.
E io mi proposi di non rubare più i fichi dal terrazzo di Giulia, anche se la tentazione era troppo forte, e anche se sono sicuro che mi avrebbe perdonato.
Ma, benedetta donna, quei fichi doveva metterli a seccare proprio dalla nostra parte, con tutto lo spazio che c'era nel resto del balcone?
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