Ad Acuto, durante i miei anni d'infanzia, la vita scorreva facile e generosa, anche se le risorse erano poche. D'estate, durante le vacanze, ci bastava poco per inventare giochi divertenti.
In fondo al paese, tra il viale di San Sebastiano e la stazioncina delle Stefer, c'era un prato meraviglioso, degradante di almeno venti metri nella lunghezza totale di un centinaio. Quasi al centro c'era una grande aia, e appena le scuole si chiudevano e cominciavano le vacanze, era sempre piena di una paglia color dell'oro e quasi morbida.
Il grano era stato trebbiato da poco.
Dal cemento dell'aia, alta fino al bordo, quella paglia ci sembrava un mare, e sentivamo fortissimo l'impulso a tuffarci. Prendevamo la rincorsa, e giù...sprofondavamo al centro di quella grande massa di fieno odoroso.
Eravamo un bel gruppetto della nostra classe, inseparabili e sempre pronti a inventarne una: io, Santino, Luigino il figlio della signora Silvia, Carlo,che era il figlio del podestà proprietario di quell'aia fantastica. E poi Antonio, che veniva da un paese vicino, Collepardo, e si era subito inserito nel gruppo.
E ancora altri, che non ricordo con precisione; in molti giochi erano presenti anche le compagne, di scuola se non proprio di classe: Francesca, Anna Maria, Maria Pia, Elisabetta, Elena.
Non sempre questi bei giochi si concludevano festosamente come erano cominciati. Nel gioco dell'aia la peggio toccò proprio a me. Nell'impeto del salto, un ginocchio mi colpì sotto l'occhio destro. Lì per lì non avvertii quasi nulla, ma ben presto mi sbucò sopra lo zigomo un bellissimo bernoccolo.
Il mio terrore era quello di non farmi notare da mio padre, cosa impossibile, perchè all'ora di cena ci saremmo trovati di fronte, attorno al lungo tavolo della cucina. Mio padre sedeva a capotavola, io quasi di fronte a lui, all'altro capo. Cercavo di coprirmi col ciuffo dei capelli, e devo esservi riuscito, perché mio padre, che di solito si arrabbiava a morte per i nostri infortuni, non disse nulla, e per quella volta mi risparmiai il solito supplemento di rimproveri, talora accompagnati anche da un memorabile scapaccione.
Da piccolo credo di essere stato, a casa, un tipo piuttosto lagnoso; contavo forse sul fatto che qualche lamento mi avrebbe aiutato a ottenere quello che cercavo.
Una volta pretesi di indossare, al nostro negozio, un paio di scarpe nuove di coppale, e non ci fu verso di togliermele: le volli tenere anche a letto, contando sul fatto che avevano le suole lucide e pulite.
La mattina dopo non me le ritrovai ai piedi, ma la grande passione doveva essere già svanita, perchè mi pare che non facessi più storie di nessun tipo.
Un'altra volta, invece, non ricordo proprio per quale insistente richiesta, mi sedei su uno scalino dietro la porta della cucina, e cominciai una lamentela talmente insopportabile (ne ero nauseato io stesso...) che mio padre prese una frasca dal fuoco e mi corse dietro, su su fino alla soffitta dove conservavamo il carbone per i fornelli.
Però il tetto a grondaia era così basso, che non poté venirmi dietro fino in fondo, e fece finta di non potermi raggiungere con quella frasca di cui conservo viva la memoria. Fu quella la volta in cui mio padre si arrabbiò di più, per cui io cercai di farmi perdonare e di essergli sempre amico e confidente. Infatti, ci comprendevamo benissimo, e io gli volevo un gran bene (continua).
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