I nostri Natali erano sempre rumorosi e movimentati. Quasi sempre venivano da Roma tutti gli zii, le zie e i nipoti, e facevamo festa da nonna Livia.Era una vera tribù: la nonna, nove tra figlie e generi, e ben ventiquattro nipoti.
La sala da pranzo era piuttosto grande, ed enorme era il tavolo al centro, ma non bastavano per quelle trentaquattro persone: una parte veniva dirottata verso l'adiacente cucina, dalla quale, del resto, partivano le vivande e quindi era già movimentata per suo conto.
I nipoti andavano dai venti anni di Fausto, Marcello e Vito, che erano i più grandi, fino ai tre-quattro anni di Luciano e Augusto e i pochi mesi di Maria Vittoria, che era la più piccola e perciò quella che meno partecipò alle nostre vivacissime e interminabili riunioni: per i pranzi, i cenoni di Natale e Capodanno, e le lunghe serate trascorse giocando a tombola, sette e mezzo e mercante in fiera.
Qualche ragazzo, che doveva alimentare piccoli vizi come il fumo o una sporadica bisboccia con gli amici, più di qualche volta bleffava al gioco; ma non sempre gli andava liscia, perchè ogni tanto c'era qualcuno che pretendeva di controllare la cartella.
Poi veniva il momento del dolce. La zia più autoritaria, probabilmente perché la più benestante, entrava sulla scena reggendo una enorme torta, e poi la andava tagliando in sottili striscioline per accontentare tutta la tribù.Lasciava solo un grosso tondo al centro, e noi, che avevamo pochi anni e tanta fame di dolce, non potevamo pensare altro che volesse lasciarlo per se stessa (che del resto era la legittima proprietaria della torta).
Aspettavamo il nostro turno con impazienza, e poi bruciavamo in rapidi bocconi la nostra parte. Ai grandi toccava anche un dito di spumante; ai piccoli, se andava bene, un po' di aranciata.
Una volta, a noi più piccoli, nipotini del paese (al contrario dei nipotini di città), era toccato in sorte di consumare il pranzo in cucina, dove non sempre c'era la luminosità e l'allegria della sala. A questa condizione di rincalzo, un po' umiliante, io non ci stavo. Una volta, così, poiché l'arrivo della prima portata tardava un po' troppo, decisi di andarmene e di andare a prepararmi il pranzo da solo a casa mia. Con me venne il fratellino minore, Luciano.
La famosa zia autoritaria (che era poi un vero pezzo di pane di bontà e di generosità) aveva organizzato un pasto a base di polenta e salsicce, che per i romani rappresentava una delizia eccezionale, mentre per noi paesani era soltanto una quotidianità forzata dalla povertà spartana della guerra.
Avevo circa otto anni, e nella cucina di casa mia attrezzai un pentolino e pensai di potervi realizzare una piccola polenta per due. Senza sugo e senza salsiccia. Il risultato fu talmente magro e deludente che decidemmo di tornare a Canossa, risalendo il vicolo del Fiore con tanto di coda fra le gambe.
Quando rientrammo a casa della nonna, nessuno parve aver fatto caso alla nostra fuga: e questo fu un ulteriore supplemento di umiliazione per noi due. Le cose erano andate avanti con tanta forzata lentezza, che toccò anche a noi la nostra bella razione di vera e gustosa polenta.
Nessuno ci punì per il nostro colpo di testa.Forse, nessuno veramente se ne accorse. E noi due, che avevamo creduto di realizzare non so quale sconvolgente rivolta!(continua).
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