Prima di fare l'insegnante - ho cominciato questa professione quando avevo trentatre anni - avevo dedicato i miei anni giovanili, circa dieci, al sogno di diventare giornalista sportivo. Più che un sogno, era stata una realtà non condotta completamente a termine per mera sfortuna, come ho raccontato ampiamente in un mio libro precedente.
Ero molto più che una grande promessa, e il fatto di non aver potuto mantenerla era rimasta per me come una colpa da tenere nascosta, come di una brutta avventura di cui non parlare mai.
Così moltissimi miei colleghi d'insegnamento non hanno mai saputo che quando ero poco più che un ragazzo avevo scritto sulle prime pagine di un paio di quotidiani sportivi, ero stato anche all'estero a fare delle cronache di calcio, avevo conosciuto in profondità ambienti di un certo rilievo e di una estrazione sociale importante.
Dopo anni e anni, qualcosa della mia passata attività era filtrata, l'avevo anche confessata a qualche collega più vicino a me, avevo perfino mostrato qualche vecchio giornale o rivista con la mia firma in evidenza accanto a nomi famosi nell'ambiente sportivo, Ghirelli, Barendson, De Cesari, Roghi, Melillo e via dicendo. Però questi colleghi, forse per una punta d'invidia, avevano preferito non raccontare nulla del mio passato a nessuno, e quindi rimanevo nell'anonimato più completo, come del resto io preferivo per non amareggiarmi più di tanto.
Quando, un giorno, una mia cara collega, da me molto stimata per la sua cultura e capacità dinamica, si vide davanti vecchi fogli di grandi giornali sportivi con la mia firma risalente magari a venti-trenta anni prima, non volle credere ai suoi occhi, e pensò che si trattasse di una omonimia o di una parentela.
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