Nella mia commissione, c'era una insegnante giovane che provvedeva alla prima scrematura: si piazzava con un testo davanti e preparava una domanda-trappola su qualche minuzia, spesso tratta dalle note del suo grosso manuale professionale. A me chiese quanti giorni di ferie fosse possibile accordare in un certificato per malattia a un insegnante che ne facesse domanda. O qualcosa del genere. Non ricordandolo, feci notare che la consultazione di un manuale avrebbe consentito al preside di non sbagliare, mentre una formazione umana da vecchio insegnante dalla lunga esperienza professionale sarebbe stata una qualità da non trascurare per la selezione di un buon preside.
Un altro collega più anziano (era Giovanni Moro, il figlio del grande Aldo Moro), che nel frattempo stava leggendo il mio tema, intervenne in mio favore. Seguì una lunga sospensione dei lavori, nel corso della quale un bidello dell'istituto mi si accostò e mi chiese se non avessi da interpellare al telefono qualche personaggio autorevole che potesse intervenire a mio vantaggio. Io non avevo nessuno.
Finì come doveva finire: sei candidati respinti su sei. Provai un'amara delusione che durò per qualche giorno, ma poi mi convinsi che forse non tutto il male viene per nuocere, e che sarebbe stato meglio per me chiudere la mia carriera da bravo insegnante, quale ero sempre stato, con una sfilza lunghissima di "ottimo" nelle classifiche annuali.
Qualcuno, nella mia scuola, commentò che forse avevo sbagliato la raccomandazione, mentre un'altra collega della CGIL mi spiegò che quell'anno i cinquanta posti erano riservati agli iscritti di quel sindacato. Un altro amen grosso così, e al concorso a preside non ci pensai proprio più.
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