Era invalsa, quell'anno, tra gli alunni, una gran brutta abitudine: quella di trascrivere in un apposito taccuino tutte le asinerie e castronerie pronunciate dagli insegnanti in certi frangenti dell'anno scolastico, per poi rinfacciargliele, più o meno benevolmente, nel famoso "pranzo dei cento giorni", che si tiene generalmente verso la metà di marzo, cento giorni prima dell'inizio degli esami di maturità.
Così quell'anno toccò anche a me di sentirmi rinfacciare quell'errore: nessuno degli alunni aveva capito che io avevo usato volutamente quell'espressione spagnola, dato che lo spagnolo era stato il mio ultimo e faticato esame prima della laurea, e avevano scambiato quell'"intiendo" per una vera e propria perla giapponese, che può ovviamente sfuggire a un insegnante nella foga di una spiegazione o, ancora di più, di un rimprovero.
Il bravo alunno che ci rinfacciava gli errori lo faceva con grande spirito sportivo, chiedendo preventivamente scusa all'insegnante. Era ormai una tradizione invalsa, anche se si faceva di ogni erba un fascio, non distinguendo l'errore voluto da quello autentico, che pure può sempre capitare ed era capitato anche a me. Io ritengo infatti che anche l'errore possa essere "didattico": basta avere il coraggio di riconoscerlo, capirne l'origine e spiegare agli alunni il corretto itinerario verso la forma giusta e precisa.
Nel mio caso, la strada giusta era appunto quella di far capire che si trattava di una specie di arguzia e di battuta: il "no intiendo" corrisponde ovviamente al "non intendo" italiano, di cui è quasi fratello gemello, e l'intenzione vera dell'insegnante era quella di sottolinearne l'assoluta serietà: volevo far capire che nessun alunno si illudesse di avere un profilo diverso da quello che era veramente reale e sincero.
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