Un anno capitò da noi un collega piuttosto smaliziato e non molto impegnato nel suo metodo d'insegnamento, in poche parole uno scansafatiche, tra l'altro estremamente invidioso della buona volontà altrui.
Il collega in parola, convinto della sua superiorità intellettuale, non accettava che gli altri colleghi si applicassero con serietà e realizzassero una programmazione seria del loro lavoro.
Naturalmente, come spesso succede, il collega che lavora distrattamente e con fatica cerca compensazioni in altro modo, stringendo alleanze, possibilmente, con un preside disposto ad accettare amicizie e simpatie verso persone affini nel carattere e nel modo di agire.
Il collega disimpegnato si comportava in modo poco corretto anche dei confronti di qualche alunna per la quale coltivava un rapporto amichevole, tale da generare anche chiacchiere e problemi di carattere extrascolastico.
Il terreno cominciava così a scottare sotto i piedi del nostro, che infatti l'anno successivo si convinse a chiedere il trasferimento a Roma, da dove veniva ogni giorno, avendo finalmente acquisito un punteggo sufficiente per ottenere un avvicinamento a casa.
Tra me e questo collega cominciava a correre un rapporto rugginoso e pieno di astio, non certo per colpa mia, ma grazie ai suoi atteggiamenti disimpegnati e discutibili anche da un punto di vista psicologico. Così stava maturando in lui l'idea di farmi pagare in qualche modo il mio comportamento antitetico al suo. Notata una certa amicizia che intercorreva tra me e una collega di lettere con la quale mi vedeva conversare con simpatia, finì per organizzare una vera e propria trappola nei miei confronti.
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