Sono stato impegnato per quindici anni consecutivi nelle commissioni degli esami di maturità, commissario d'italiano o più spesso come presidente, e quindi ho dovuto subire l'umiliante trafila delle raccomandazioni.
Sono stato sempre alieno a questa forma di costrizione morale, che ha in sé una specie di trattativa commerciale: se io do una cosa a te, tu inevitabilmente dovrai dare una cosa a me. Ma anche mettendola sul piano del semplice favore amichevole, presuppone sempre un qualche tipo d'ingiustizia ai danni di chi non è raccomandato. Un fatto tanto più grave se lo si estende, ad esempio, sul piano del lavoro: ottenere per raccomandazione un posto di lavoro sia pure per un tuo figlio, significa dare un calcio ad ogni meritocrazia e danneggiare solo coloro che non possono usufruire di un favore così importante da poter decidere e influire su tutta una vita.
Alle persone, per lo più amiche, che venivano a chiedermi una raccomandazione alla vigilia di un esame o di uno scrutinio, non potevo certo rispondere con quella specie di predicozzo che ho fatto or ora, e per evitare qualsiasi contrasto o fastidio rispondevo sempre di sì. Mi sentivo moralmente a posto, in quanto sono naturalmente portato ad aiutare il mio prossimo, conosciuto o sconosciuto: agendo in questa maniera, mi sono sempre adoperato a favore di una promozione e mai di una bocciatura, a meno che non fosse così evidente da saltare all'occhio di tutta una commissione. In questo caso, come avrei potuto oppormi e impegnarmi per una promozione che sarebbe stata assolutamente ingiusta?
Spesso, però, chi vuole fruire di una raccomandazione lo fa allo scopo di ottenere un voto brillante per il suo pupillo: ad esempio, il massimo dei voti, sessanta o cento, alla maturità. Anche in questo caso, si tratta di commettere un'ingiustizia, e non mi sono mai sentito di proporre un voto alto per un candidato danneggiando visibilmente altri candidati migliori di lui.
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