L'anno prima di partire per il suo collegio di Pescina, in Abruzzo, mio fratello Luciano non ne volle proprio sapere di fare gli studi di prima media con me. Io ci provai ripetutamente, ma lui era tutto preso dal suo giro di amicizie, dalla sua passione per il gioco del pallone in cui eccelleva, dalle sue dinamiche iniziative pratiche: per esempio, amava molto le macchine e la meccanica, che esercitava volentieri nell'officina di un suo grande amico, Luigino, dei fratelli Mario e Manlio e del padre Federico.
Io cercavo di fargli studiare le declinazioni latine e l'analisi logica, ma lui da quel lato poco ci sentiva. Alle mie fastidiose insistenze, un giorno pensò bene di reagire in concreto.
Io studiavo sull'ampio davanzale di una finestra della mia cameretta che dava sui tetti di Acuto e sul vecchio campanile di Santa Maria, culminante in una piramide quadrangolare con ornamenti in ferro battuto. Mi sedevo sul lettino lì vicino, ed era piuttosto comodo studiare senza l'ausilio né di scrivanie né di sedie. Di mezzo c'era ancora un altro lettino.
Che pensò bene di fare Luciano, detto Cianetto dai tanti amici che aveva? Prese giù in cucina una lunga frasca che serviva per il fuoco del camino, salì le scale che portavano su nella nostra cameretta, e dalla soglia, ben protetto dai due lettini, mi diede una vigorosa frustata tra capo e collo, mettendo così a tacere una volta per tutte il mio desiderio di farlo studiare almeno un po'. Inutilmente cercai d'inseguirlo.
Era l'anno 1950, anno santo da una parte, ma dall'altra, per noi personalmente, un anno perduto, annaspando alla ricerca di una strada più seria da seguire, che non poteva essere altro che quella di un nuovo collegio. Per fortuna, l'anno dopo le cose si aggiustarono per entrambi, e quindi il rimpianto per il tempo perduto bene o male si limitò a una sola stagione.
Ad Acuto, il nostro caro paese, del resto si stava benissimo, avevamo tantissimi amici e tante occasioni di gioco, primo fra tutti quello del calcio, alimentato soprattutto da Santino, che riusciva miracolosamente a racimolare qualche vecchio pallone di cuoio e a formare un paio di squadre per andare a giocare giù al piano della Ciancola, dove era nato un campo sportivo sassoso e parzialmente in discesa. Addio studi!
Lo zio Aurelio, che era un bravo maestro elementare, rimproverava continuamente suo nipote Santino, e anche me, che invece di prepararci agli esami di quinto ginnasio trovavamo tutte le occasioni utili per il divertimento. - Sono infantili !- diceva - Sono rimasti proprio due bambini ! -
Ricordo che Santino, per non coinvolgermi direttamente nella sua passione per il calcio, evitava di chiamarmi con il suo triplice fischio passando sotto la mia finestra. Ma io, o lo sentivo ugualmente, stando sempre con le antenne tese, oppure, se non me ne accorgevo, poi provavo rammarico e un po' di rancore nei suoi confronti, rimproverandolo per non avermi chiamato.
Ma lui un padre lo aveva, e aveva anche quel suo zio Aurelio che lo controllava, e io non avevo nessuno che mi facesse da cane da guardia, e perciò la coscienza suggeriva a Santino di non distrarmi troppo con il gioco del pallone, perché poi la colpa, magari, sarebbe ricaduta su di lui.
Io cercavo di fargli studiare le declinazioni latine e l'analisi logica, ma lui da quel lato poco ci sentiva. Alle mie fastidiose insistenze, un giorno pensò bene di reagire in concreto.
Io studiavo sull'ampio davanzale di una finestra della mia cameretta che dava sui tetti di Acuto e sul vecchio campanile di Santa Maria, culminante in una piramide quadrangolare con ornamenti in ferro battuto. Mi sedevo sul lettino lì vicino, ed era piuttosto comodo studiare senza l'ausilio né di scrivanie né di sedie. Di mezzo c'era ancora un altro lettino.
Che pensò bene di fare Luciano, detto Cianetto dai tanti amici che aveva? Prese giù in cucina una lunga frasca che serviva per il fuoco del camino, salì le scale che portavano su nella nostra cameretta, e dalla soglia, ben protetto dai due lettini, mi diede una vigorosa frustata tra capo e collo, mettendo così a tacere una volta per tutte il mio desiderio di farlo studiare almeno un po'. Inutilmente cercai d'inseguirlo.
Era l'anno 1950, anno santo da una parte, ma dall'altra, per noi personalmente, un anno perduto, annaspando alla ricerca di una strada più seria da seguire, che non poteva essere altro che quella di un nuovo collegio. Per fortuna, l'anno dopo le cose si aggiustarono per entrambi, e quindi il rimpianto per il tempo perduto bene o male si limitò a una sola stagione.
Ad Acuto, il nostro caro paese, del resto si stava benissimo, avevamo tantissimi amici e tante occasioni di gioco, primo fra tutti quello del calcio, alimentato soprattutto da Santino, che riusciva miracolosamente a racimolare qualche vecchio pallone di cuoio e a formare un paio di squadre per andare a giocare giù al piano della Ciancola, dove era nato un campo sportivo sassoso e parzialmente in discesa. Addio studi!
Lo zio Aurelio, che era un bravo maestro elementare, rimproverava continuamente suo nipote Santino, e anche me, che invece di prepararci agli esami di quinto ginnasio trovavamo tutte le occasioni utili per il divertimento. - Sono infantili !- diceva - Sono rimasti proprio due bambini ! -
Ricordo che Santino, per non coinvolgermi direttamente nella sua passione per il calcio, evitava di chiamarmi con il suo triplice fischio passando sotto la mia finestra. Ma io, o lo sentivo ugualmente, stando sempre con le antenne tese, oppure, se non me ne accorgevo, poi provavo rammarico e un po' di rancore nei suoi confronti, rimproverandolo per non avermi chiamato.
Ma lui un padre lo aveva, e aveva anche quel suo zio Aurelio che lo controllava, e io non avevo nessuno che mi facesse da cane da guardia, e perciò la coscienza suggeriva a Santino di non distrarmi troppo con il gioco del pallone, perché poi la colpa, magari, sarebbe ricaduta su di lui.
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