Stava cominciando un fenomeno che apparve irreversibile e di enormi conseguenze: il graduale svuotamento dei paesi di montagna come Acuto, quando la città apparve il mito della rinascita, del lavoro per tutti, dello stipendio che risolveva tutti i problemi.
In dieci anni, la popolazione del mio paese, da tremila abitanti si riduceva a uno scarso migliaio. La magra campagna venne gradualmente abbandonata, le case si svuotarono e cominciò la loro progressiva decadenza.
Le famiglie persero uno alla volta i loro componenti: per prime partirono le forze giovani, che trovarono lavoro soprattutto nell'edilizia, ma anche nelle prime industrie
che nascevano alle periferie della Capitale. I più fortunati trovarono impiego nei ministeri, negli ospedali, negli enti parastatali, nel commercio.
Poi fu la volta delle forze di rincalzo: qualche genitore non troppo anziano, i secondogeniti in grado di affrontare le prime fatiche; poi le donne, anziane e ragazze, che finalmente uscivano dalle loro case per cominciare a collaudare la loro tanto invocata parità.
Così accadde a casa mia: il primogenito trovò lavoro già nel 1945, a 23 anni; il secondo lo seguì tre anni dopo, ma dovette a lungo penare in lavoretti di ripiego, sistemandosi stabilmente soltanto ai primi anni '50. A questo punto, con due stipendi, il gruppone familiare era maturo per il grande salto: nella primavera del 1952 ci trasferimmo in blocco a Roma, in un vecchio edificio di proprietà del Banco di Napoli (dove era impiegato il figlio maggiore) in Via Carlo Alberto, a un passo da Santa Maria Maggiore.
In soli sette anni il grande salto era compiuto: la cara casetta del paese ci vedeva tornare sporadicamente, al massimo per una ventina di giorni nell'estate, e cominciò la sua graduale decadenza.
Come era triste, d'altra parte, tornare lì dove eravamo stati così felici con nostro padre e con i tanti amici ormai perduti.
Ma non era stato facile, per noi, arrivare a quel 1952 che voleva dire l'inizio di una lenta e faticosa ripresa. Avevo appena undici anni, settembre 1945, e per me cominciò il lungo calvario dei collegi.
Infatti, prima che mi trasferissi anch'io nella Capitale, dovettero trascorrere altri otto anni,dal 1945 al 1953. Nel corso di questi otto anni, cambiando collegio tre volte tra Anagni ed Alatri, riuscii a compiere i miei studi, prima nella scuola media, poi al ginnasio, infine al liceo classico, e nell'ottobre del 1953, con uno strappo che non fu molto bene accetto in famiglia, riuscii finalmente a trasferirmi a Roma, iscrivendomi
all'ultimo anno del liceo classico Pilo Albertelli, ex Umberto I, proprio a fianco dell'abside di Santa Maria Maggiore.
Ma quest'ultima parte della mia adolescenza era ormai un mondo completamente diverso da quello della mia infanzia, alla quale ho deciso di dedicare le mie memorie.
Un giorno, chissà, forse parlerò anche della mia adolescenza e giovinezza, vissute in uno scenario completamente diverso.
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