Il mio primo collegio, settembre 1945, fu il seminario di Anagni. Avevo compiuto da poco undici anni, e mio padre Domenico era morto appena nove mesi prima, rendendo ancora più drammatico il mio distacco da casa.
Per entrare in seminario, dovevi avere presumibilmente la vocazione a farti prete, ed offrire anche un piccolo contributo economico che in parte ti dava il tuo comune di origine e in parte consisteva, allora, in un sostegno alimentare: un quintale di grano, una damigiana d'olio. Mia madre, vedova poverissima e madre di sette figli, dovette fare miracoli per riuscire a raggranellarli, e penso che un aiuto ci venne dagli zii del Piglio, i fratelli più giovani di mio padre, specialmente da zio Pasqualino e zia Paolina che non avevano figli.
Non ricordo se qualcuno mi chiese mai se avessi quella benedetta vocazione. Tutti lo davano per scontato, e io non mi opposi, anche se dentro di me soffrivo orribilmente la prospettiva di lasciare la casa paterna. D'altra parte, quello era l'unico modo per poter accedere allo studio delle scuole medie, che nella zona non esistevano.
Così, nell'incipiente autunno di quell'anno, noleggiammo il carrettino di Felicetto, unico mezzo pubblico disponibile, e da Acuto, mio paese natìo, raggiungemmo Anagni e il suo seminario, affiancato alla bella cattedrale e all'alto campanile romanico.
Ricordo che per tutto il giorno precedente, mio fratello minore Luciano, di otto anni, andava canticchiando, tutto eccitato per la novità: - Domani cetto, con Felicetto, sopra al carretto, si va si va...- L'avverbio "cetto", dal latino "cito", vuol dire "prestissimo": era ripreso da una parola dialettale usata dai contadini che si alzavano all'alba.
Per me il seminario fu un successo. Non avevo libri, e me li facevo prestare dai compagni, copiavo rapidamente, o sintetizzavo, gli argomenti delle lezioni quotidiane, e già facendo questo ero preparato e disposto a seguire il lavoro di classe. Erano piccole classi interne, di una dozzina di alunni, tenute da sacerdoti ben preparati in latino, italiano, francese, un po' meno in matematica, storia e geografia.
Complessivamente, il livello era più che decoroso, e il ricordo che ne ho è ottimo se paragonato a quello delle odierne scuole medie. In tre anni, ad esempio, espletammo tutto il lavoro della grammatica e della sintassi, in particolare in latino, e addirittura ci addentrammo nella prosodia e nella metrica, esercitandoci nella composizione di esametri e pentametri.
Ottimo maestro di latino era il rettore, monsignor Giovanni Salina di Carpineto Romano, severo e pungente con la sua ironia che talora sapeva raggiungere il sarcasmo.
Altro ottimo insegnante di discipline letterarie era don Lorenzo Fabrizi, vicerettore, originario della Sgurgola, che aveva una profonda conoscenza del francese, e anche lui ci spingeva perfino a comporre poesie in quella lingua.
La poesia era per me come un rifugio. Qualcuna, più sentita delle altre, la dedicavo alla morte di mio padre, ferita ancora cocente, che tuttavia si andava
gradualmente mitigando. Non vestivamo la famosa sottana nera dei seminaristi, ma portavamo ancora i calzoni corti: eravamo poco più che bambini, e poi la stoffa, in quegli anni di emergenza, era una merce molto rara.
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