I cari amici del seminario rimasero molto colpiti dalla mia brusca partenza. Un giorno, partiti in gita al mattino presto, me li vidi capitare tutti ad Acuto, e mi chiesero di disputare subito un incontro amichevole tra una squadra di volontari del paese contro la loro formazione. Questo mi fece molto piacere, e io in campo misi tutto me stesso per fare una bella figura.
La squadra del collegio era accompagnata dal prefetto don Giuseppe Gessi, al quale ero molto affezionato: probabilmente era stato proprio lui a prendere l'iniziativa.
In campo, io mi sentivo sospinto da una grande forza. Volevo che mi ricordassero, e un po' mi rimpiangessero. Ci riuscii, perché uno di essi, che era di una classe inferiore alla mia, nel corso dell'incontro parlò più volte con me, e in una occasione, mentre tentavo di fare addirittura una rovesciata, mi disse: "In gran forma, eh?" Quando andarono via, mi salutarono affettuosamente, e io ero visibilmente commosso.
Non fu l'unico contatto. Ricordo vagamente che il vescovo Piasentini non si era rassegnato facilmente alla mia rinuncia, e tramite un cauto contatto con il parroco di Acuto, don Filippo, sondò il campo per un mio possibile ritorno.
Io feci capire che non era il caso di tornare indietro: non me la sentivo. Poi, per lunghi periodi, mi rimase nella mente questa eventualità, perché ricordo che nei miei sogni ero dibattuto fra la possibilità di tornare in seminario e la rinuncia definitiva, che mi costava sempre sofferenza e nello stesso tempo un grande coraggio.
Intanto, gli studi interrotti venivano da me ripresi con chiara difficoltà. C'erano due materie che mi mettevano paura: il greco e la matematica. Nel primo, avevo appena cominciato a porre le basi, mentre nella seconda queste basi erano deboli, e scoprii ben presto di non avere la capacità di una preparazione autonoma. Nel giugno dell'anno successivo, 1950 - era l'Anno Santo - avrei dovuto dare l'esame di licenza ginnasiale da privatista al Collegio Nazareno a Roma, e la cosa mi spaventava.
Si aggiunga che mi ero accollato anche la preparazione di prima media per mio fratello Luciano, ma Cianetto, come lo chiamavano gli amici, si era dedicato completamente al gioco del pallone, nel quale era davvero bravissimo, e non mi dava minimamente retta: mi ero preso una bella gatta da pelare!
Luciano era refrattario soprattutto alla grammatica e allo studio del latino. Mi ascoltò per un paio di volte, ma quando si trattò di fare i compiti non mi dava retta minimamente.
Mia madre ne soffriva, ma stava già prendendo i necessari provvedimenti. Oltre al seminario, c'era la possibilità di studiare anche come allievo di qualche ordine religioso, in cui avevano fatto esperienza non pochi ragazzi di Acuto.
Così, senza frapporre altro tempo, dopo Natale Luciano partì per la cittadina abruzzese di Pescina (guarda caso, la città natale dello scrittore Ignazio Silone, uno dei miei preferiti), dove era un convento dei fratelli monfortani, di origine francese. Luciano si comportò benissimo, questa volta: accolto con amore, s'inserì a meraviglia e recuperò tutto il tempo perduto, conducendo a termine i suoi studi con il diploma delle magistrali, per potersi dedicare a sua volta all'insegnamento dei più giovani.
La squadra del collegio era accompagnata dal prefetto don Giuseppe Gessi, al quale ero molto affezionato: probabilmente era stato proprio lui a prendere l'iniziativa.
In campo, io mi sentivo sospinto da una grande forza. Volevo che mi ricordassero, e un po' mi rimpiangessero. Ci riuscii, perché uno di essi, che era di una classe inferiore alla mia, nel corso dell'incontro parlò più volte con me, e in una occasione, mentre tentavo di fare addirittura una rovesciata, mi disse: "In gran forma, eh?" Quando andarono via, mi salutarono affettuosamente, e io ero visibilmente commosso.
Non fu l'unico contatto. Ricordo vagamente che il vescovo Piasentini non si era rassegnato facilmente alla mia rinuncia, e tramite un cauto contatto con il parroco di Acuto, don Filippo, sondò il campo per un mio possibile ritorno.
Io feci capire che non era il caso di tornare indietro: non me la sentivo. Poi, per lunghi periodi, mi rimase nella mente questa eventualità, perché ricordo che nei miei sogni ero dibattuto fra la possibilità di tornare in seminario e la rinuncia definitiva, che mi costava sempre sofferenza e nello stesso tempo un grande coraggio.
Intanto, gli studi interrotti venivano da me ripresi con chiara difficoltà. C'erano due materie che mi mettevano paura: il greco e la matematica. Nel primo, avevo appena cominciato a porre le basi, mentre nella seconda queste basi erano deboli, e scoprii ben presto di non avere la capacità di una preparazione autonoma. Nel giugno dell'anno successivo, 1950 - era l'Anno Santo - avrei dovuto dare l'esame di licenza ginnasiale da privatista al Collegio Nazareno a Roma, e la cosa mi spaventava.
Si aggiunga che mi ero accollato anche la preparazione di prima media per mio fratello Luciano, ma Cianetto, come lo chiamavano gli amici, si era dedicato completamente al gioco del pallone, nel quale era davvero bravissimo, e non mi dava minimamente retta: mi ero preso una bella gatta da pelare!
Luciano era refrattario soprattutto alla grammatica e allo studio del latino. Mi ascoltò per un paio di volte, ma quando si trattò di fare i compiti non mi dava retta minimamente.
Mia madre ne soffriva, ma stava già prendendo i necessari provvedimenti. Oltre al seminario, c'era la possibilità di studiare anche come allievo di qualche ordine religioso, in cui avevano fatto esperienza non pochi ragazzi di Acuto.
Così, senza frapporre altro tempo, dopo Natale Luciano partì per la cittadina abruzzese di Pescina (guarda caso, la città natale dello scrittore Ignazio Silone, uno dei miei preferiti), dove era un convento dei fratelli monfortani, di origine francese. Luciano si comportò benissimo, questa volta: accolto con amore, s'inserì a meraviglia e recuperò tutto il tempo perduto, conducendo a termine i suoi studi con il diploma delle magistrali, per potersi dedicare a sua volta all'insegnamento dei più giovani.
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