sabato 7 maggio 2011

Vita di collegio: 29. Don Salina e la poesia

Monsignor Salina, oltre che rettore del seminario, era anche nostro insegnante d'italiano e latino. In latino, posso garantirvi che era formidabile: nei tre anni della scuola media, riuscì a portare avanti un programma veramente notevole. Esaurì la grammatica già nel corso del primo anno, mentre in seconda completammo tutta la sintassi dei casi, ed in terza esaurimmo lo studio sintattico con l'analisi del periodo e di tutti i tipi delle proposizioni secondarie, compresa la "consecutio temporum" e il periodo ipotetico di tutti e tre i tipi.
Questo enorme programma, oggi, viene portato a termine nei due anni del ginnasio e nei tre anni del liceo classico, cinque anni invece di tre. E con ampie lacune. Contemporaneamente, si effettuava una serie impressionante di versioni, dall'italiano in latino, cosa che non si fa più ed è invece fondamentale, e dal latino in italiano, con letture antologiche infinite, da Fedro a Cesare, da Ovidio a Cicerone, da Catullo a Sallustio, da Tacito a Seneca, e chi più ne ha più ne metta.
Un esercizio assiduo, completato con lo studio della prosodia e della metrica, allo scopo di abituarci addirittura alla composizione poetica latina con l'ausilio di un volume intitolato "Regia Parnassi". Imparavamo le regole a memoria in lingua latina: " Cuncta supina volunt primam dissillabam longam: at reor, et cieo, et sero, et ire, sinoque linoque, do, queo et orta ruo...breviabunt rite priorem".
Era molto difficile inventare esametri e pentametri in latino, ma a furia di tentativi qualcuno di noi alla fine ci riusciva.
In italiano, don Giovanni Salina non era altrettanto approfondito, sia dal punto di vista teorico che pratico. Aveva basi molto salde, ma un linguaggio non ricco e non esente da trascuratezze e svogliatezze. Soprattutto si annoiava nella correzione dei nostri temi: ce li faceva leggere dal posto, e non sempre era concentrato. Inoltre rifuggiva dai neologismi e dai tentativi d'innovazione: ricordo che una volta avevo usato l'aggettivo "indaffarato" e lui non volle assolutamente accettarlo, dicendo che non capiva che cosa volesse significare. Eppure si trovava regolarmente sul vocabolario Palazzi da noi adottato. In latino usavamo il Georges-Calonghi in due distinti volumi, e in greco il Rocci.
In italiano non veniva curato molto lo studio sistematico della letteratura, ma si affrontava una grandissima quantità di testi dei grandi autori, rigorosamente fino al Manzoni, con qualche concessione a Foscolo e Leopardi. I più moderni erano il Carducci, il Pascoli e D'Annunzio. Ignorato tutto il naturalismo e il verismo, persino il Verga, cosa davvero inaudita. Autori come Moravia e Pasolini sarebbero stati posti rigorosamente all'indice.
Malgrado ciò, don Salina non disdegnava l'idea che potessimo comporre poesie in italiano. Una volta ci lasciò liberi di scegliere: italiano o latino. Due ore di esercitazione. Nella prima ora tentai inutilmente col latino, nella seconda mi rifugiai nell'italiano. Quando mi chiamò per farmi leggere il mio lavoro, spiegai la situazione. Lui ascoltò la mia poesia in italiano, e poi commentò così: -Hai fatto come il Petrarca. Brutte le sue opere in latino, meravigliose quelle in italiano, i Sonetti, che lui definiva "nugae, nugellae" e invece furono il suo capolavoro -
Perbacco: era un grosso complimento, del tutto inatteso da un insegnante rude come monsignor Salina.

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