Il vescovo Piasentini, veneziano, si era portato dietro, venendo ad Anagni, una piccola corte di sacerdoti delle sue parti. Tutto ciò è normale, in quanto anche per un'alta autorità, se trasferita in una zona non sua, il peso della diversità si avverte e va alleggerito, con gradualità e intelligenza.
Però uno di questi sacerdoti, il giovanissimo don Albino Bilibìo, fu introdotto nel nostro seminario con la funzione di prefetto, cioè di educatore dei giovani.
Don Albino era pesante già come figura, massiccio e con la faccia quadrata; si aggiunga un carattere puntiglioso e difficile, e avrete il quadro esatto di quali fossero i rapporti tra lui e i giovani che avrebbe dovuto educare.
A farla breve, i nostri rapporti con don Albino erano alquanto tesi. Ci pesava il suo controllo stretto su ogni minima cosa. Una volta venne in competizione proprio con me. Prima di ogni passeggiata pomeridiana, quando era bel tempo, dovevamo lucidarci le scarpe rovesciando la sedia che avevamo a disposizione vicino al letto, in camerata: a furia di spazzolate e un po' di lucido, cercavamo di ridare un buon aspetto alle nostre scarpe di tutti i giorni, provate fra l'altro dal nostro quasi quotidiano gioco del calcetto.
Io ritenni di aver fatto bene il mio lavoro, ma riconosco di essere stato piuttosto sbrigativo: allora don Albino, piazzato proprio di fronte a me, insistette perché pulissi veramente a fondo le scarpe.
Io me la presi a male e avrei voluto ribellarmi a quella che ritenevo un'impuntatura. Ci scappò qualche brutta parola. La sera, all'uscita dal refettorio dopo la cena, il direttore, circondato dagli altri dirigenti, mi chiamò per una specie di rapporto. Io, che di solito ero un tipo molto calmo, ero notevolmente arrabbiato e mi difesi con energia, attaccando il povero Bilibìo.
Il giorno dopo, riparlandone con il vicerettore don Lorenzo Fabrizi, che ritenevo mio amico, mi disse con una certa durezza: -Mi sembravi un vero piccolo diavolo! - Erano le avvisaglie di un inizio di rottura, di una situazione che cominciava a diventare pesante.
Nessuno si sarebbe aspettato, da un ragazzo calmo e ragionevole come me, una reazione così rabbiosa. Ma Albino Bilibìo mi era sembrato volersi accanire più di una volta verso di me. Forse era risentito perché lo prendevamo un po' in giro per la sua aria di cerbero non particolarmente vivace in fatto d'intelligenza.
Non ricordo che fine abbia fatto, don Albino. Forse, quando io andai via dal seminario, lui se n'era già andato altrove. L'auspicata fusione tra elementi del Veneto e quelli laziali non era per niente avvenuta, e ognuno se ne stava orgogliosamente sulle sue, senza voler dare mai ragione né comprensione all'altro.
Però uno di questi sacerdoti, il giovanissimo don Albino Bilibìo, fu introdotto nel nostro seminario con la funzione di prefetto, cioè di educatore dei giovani.
Don Albino era pesante già come figura, massiccio e con la faccia quadrata; si aggiunga un carattere puntiglioso e difficile, e avrete il quadro esatto di quali fossero i rapporti tra lui e i giovani che avrebbe dovuto educare.
A farla breve, i nostri rapporti con don Albino erano alquanto tesi. Ci pesava il suo controllo stretto su ogni minima cosa. Una volta venne in competizione proprio con me. Prima di ogni passeggiata pomeridiana, quando era bel tempo, dovevamo lucidarci le scarpe rovesciando la sedia che avevamo a disposizione vicino al letto, in camerata: a furia di spazzolate e un po' di lucido, cercavamo di ridare un buon aspetto alle nostre scarpe di tutti i giorni, provate fra l'altro dal nostro quasi quotidiano gioco del calcetto.
Io ritenni di aver fatto bene il mio lavoro, ma riconosco di essere stato piuttosto sbrigativo: allora don Albino, piazzato proprio di fronte a me, insistette perché pulissi veramente a fondo le scarpe.
Io me la presi a male e avrei voluto ribellarmi a quella che ritenevo un'impuntatura. Ci scappò qualche brutta parola. La sera, all'uscita dal refettorio dopo la cena, il direttore, circondato dagli altri dirigenti, mi chiamò per una specie di rapporto. Io, che di solito ero un tipo molto calmo, ero notevolmente arrabbiato e mi difesi con energia, attaccando il povero Bilibìo.
Il giorno dopo, riparlandone con il vicerettore don Lorenzo Fabrizi, che ritenevo mio amico, mi disse con una certa durezza: -Mi sembravi un vero piccolo diavolo! - Erano le avvisaglie di un inizio di rottura, di una situazione che cominciava a diventare pesante.
Nessuno si sarebbe aspettato, da un ragazzo calmo e ragionevole come me, una reazione così rabbiosa. Ma Albino Bilibìo mi era sembrato volersi accanire più di una volta verso di me. Forse era risentito perché lo prendevamo un po' in giro per la sua aria di cerbero non particolarmente vivace in fatto d'intelligenza.
Non ricordo che fine abbia fatto, don Albino. Forse, quando io andai via dal seminario, lui se n'era già andato altrove. L'auspicata fusione tra elementi del Veneto e quelli laziali non era per niente avvenuta, e ognuno se ne stava orgogliosamente sulle sue, senza voler dare mai ragione né comprensione all'altro.
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