martedì 24 maggio 2011

Vita di collegio: 36. La crisi

All'inizio del quarto anno, la mia dinastia familiare cominciò ad avanzare pretese per una nuova candidatura Jadicicco al posto in seminario. Erano arrivati anche gli undici anni del mio fratellino minore Luciano, e io già sapevo che era nell'aria il suo arrivo. 
Conoscendo il suo carattere scoppiettante e abbastanza disinvolto, io avevo avvisato mia madre e mio fratello maggiore: non lo mandate, perché c'è il rischio che invece di due aspiranti si rimanga addirittura a zero.
Ma Luciano, ai primi di settembre, arrivò. Con la sua grande vivacità e la sua spensieratezza. Non era né migliore né peggiore di tanti altri suoi coetanei, ma io mi sentivo sulle spine e quasi responsabile di ogni suo eventuale piccolo errore. Già io, nella mia mente, stavo scontando i precedenti degli altri due fratelli, Vito e Silvestro, e non mi sentivo sicuro nemmeno di me stesso.
Luciano cominciò azzuffandosi allegramente con alcuni suoi compagni vivaci quanto lo era lui. Se in una cosa si distingueva, era per la sua grande bravura nel gioco del pallone: lì brillava davvero.
Quanto agli studi, la sua intelligenza era notevole, ma la sua applicazione sporadica e non coltivata. Modesti i risultati complessivi, quando invece avrebbe potuto brillare, come dimostrò ampiamente con il progredire della sua maturazione.
Ricordo il suo esordio bruciante: appena lavatosi la faccia e i denti, recatosi negli spartani gabinetti alla turca sentì all'improvviso scivolargli irreparabilmente la saponetta e il dentifricio, per cui il padre economo fu chiamato immediatamente a una seconda fornitura, che lo irritò abbastanza.
Ogni piccolo errore che Luciano commetteva, io sentivo aumentare le mie responsabilità. La realtà era un'altra, ed era in agguato: io stavo solo aspettando il pretesto per una rottura imprevista ma sempre possibile.
Arrivò novembre, e i nostri dirigenti fecero capire a mia madre la necessità di un colloquio per il nostro problema. Luciano non riusciva ad inserirsi nel lavoro scolastico, lasciava a desiderare anche un po' nella condotta, anche il mio comportamento appariva condizionato e meno sicuro rispetto al passato.
Che fare? Monsignor Salina aspettava una risposta. Mia madre, date le gravi difficoltà economiche della famiglia, sette fratelli nelle mani di una giovane vedova, non sapeva che soluzione trovare. Noi due, Luciano e io, ci eravamo impuntati: volevamo tornare a casa.
Il rettore cercò una soluzione: io sarei potuto restare almeno a fine anno, ma a un patto: che non parlassi del mio problema con gli altri della mia classe. La cosa era evidentemente impossibile. Si giunse alla rottura definitiva nel giro di pochi minuti.
Saremmo tornati a casa. Promettevamo di studiare da soli, e io mi sarei incaricato anche di avviare mio fratello Luciano allo studio della prima media, latino compreso.
La mia povera madre Geltrude fu costretta ad accettare: non si poteva del resto fare altrimenti. Mio fratello maggiore, Vito, ormai aveva 27 anni, si era laureato in giurisprudenza, lavorava stabilmente al Banco di Napoli, e se la sentì di affrontare la pesante situazione economica sperando nel lavoro del secondo maschio, Silvestro, arrivato ai 18 anni. Così, a metà novembre del 1949, tornai ad Acuto con mio fratello Luciano. 

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