Tra le passioni prevalenti per i giovani, subito dopo la guerra, ci fu sicuramente il teatro. Un teatro di tipo profano tra i più grandi, ragazzi di circa vent'anni, quasi tutti studenti universitari, che avevano ottenuto di poter usufruire dei grandi ambienti della Maternità e Infanzia, rimasti vuoti delle centinaia di orfani di Roma accolti fino al 1943.
Tra i più fervidi animatori di questa passione teatrale vi erano mio fratello maggiore, Vito; lo zio del mio amico Santino, l'impegnatissimo Aurelio; un altro studente di giurisprudenza, Augusto, dal divertente soprannome di Parapaponzio;un fratello delle maestre Mirella e Maria, Ercolino, figlio del mugnaio: era lui che forniva i testi teatrali, traendoli dalla fornitissima biblioteca di famiglia.
Storica fu la prima rappresentazione, "La battaglia di Sèfata", una commedia impostata su un biblico campo di battaglia in Etiopia e su un prigioniero che ne era protagonista.
Ricordo ancora una battuta che faceva tanto ridere. -"Che fai vicino al regio padiglion- pausa - : favella ! - in cui si sottolineava l'ignoranza di alcuni teatranti che stavano effettuando delle prove.
La gente accorse giù a San Sebastiano, alla Colonia, in fondo alla passeggiata, da tutte le zone del paese, anche le più lontane. Ci fu forse un altro paio di repliche, ma poi quei giovani furono immersi dalle necessità dello studio e del lavoro.
Un altro centro di passione teatrale era quello delle suore, le Adoratrici del Sangue Prezioso, che ad Acuto hanno la casa madre. Le recite venivano ospitate in un salone su al Colle, nella parte più alta del paese. Questo tipo di teatro era spesso di carattere religioso, e animato da personaggi prevalentemente femminili.
Qui dominavano mia sorella Amalia, mia cugina Giuseppina, e un'amica di famiglia, Teresa; recitavano anche dei bambini, e uno di essi era mio fratello più piccolo, Luciano, che la prima volta rappresentò il bambinello nel Presepe, combinando un bel pasticcio con i suoi pianti, al punto di dover essere sostituito con un bambolotto.
Anche in questi casi, c'era sempre un grande pubblico in attesa, quasi tutto destinato a rimanere fuori perché il salone, oltre al palcoscenico, poteva ospitare soltanto duecento persone. Ingresso gratuito, sia alla Colonia che al Collegio.
Io ero sempre in fila per poter entrare. Ma una volta, sul Colle, la folla era troppa, e non mi riuscì di entrare. Dovettero accorrere i carabinieri per controllare la situazione.
Alcuni bambini, per protesta, saliti su un terrazzino alla sommità di una scala, cominciarono a lanciare delle pannocchie di granturco vuote, che servivano per accendere il fuoco. Io ero tra loro.
Uno di questi torsoli colpì, per caso o no, uno dei carabinieri, che salì le scale di corsa e mi trovò con il corpo del reato fra le mani. Mi sembrava di aver commesso un grosso delitto e sarei voluto scomparire. Ma il carabiniere mi riconobbe: ero il figlio di Memmuccio, il vicesindaco, e così, invece di essere punito come meritavo, fui premiato con l'ingresso alla tanto sospirata recita teatrale.
Mentre entravo, però, accompagnato dal carabiniere, tra la folla assiepata, mi sembrava di non meritare tanto onore e mi vergognavo come un ladro. Avevo dieci anni.
Però la passione per il teatro, sia pure di non eccelsa qualità, fu più forte di ogni sentimento (continua).
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