Nella nostra sala da pranzo, ad Acuto, c'era qualche velleità di abitazione un po' snob: intanto il soffitto a cassettone, con abbozzi di dipinti ornamentali.
Mio padre, che negli anni Venti aveva provveduto a ristrutturare la casa in cui era entrato come fresco sposo, aveva particolarmente curato quell'ambiente. Pareti a olio con una simpatica tinta verde prato; una bella finestra molto ariosa che immetteva sul terrazzo; una cristalliera per le stoviglie, sempre odorosa di erbe mediche; un ampio divano dirimpetto; e soprattutto quella tavola enorme, capace di ospitare non solo gli sposi e gli otto figli, ma anche parenti ed amici fino a un totale di venti.
Sulla parete del divano spiccava un quadro che conteneva il proclama della Vittoria di Armando Diaz del 4 novembre 1918, e due o tre medaglie e croci di guerra in bronzo, di cui andava orgoglioso mio padre, che aveva partecipato alla prima guerra mondiale nel 1915, o soli diciotto anni.
Però, la cosa che più mi attirava era una serie di quattro grandi quadri che riproducevano la leggenda di Sigfrido, della sua sposa Crimilde e del loro piccolo Schmitzring, rapito ai genitori, disperso nella foresta e allevato dai lupi.
Quei quadri, semplici riproduzioni di dimensioni notevoli e dai colori piuttosto cupi, avevano il potere di affascinarmi, e soprattutto mi affascinava il nome di quel bambino biondo: Schimmizzeringhe, come si diceva alla buona, non riuscendo a riprodurre altrimenti la difficile pronuncia.
Questa sala da pranzo ha sicuramente visto le nostre serate familiari più liete, i nostri pranzi di festa, soprattutto quello del patrono San Maurizio del 22 settembre, quando tutto il paese sembrava fervere di una vita piena di allegria e di irripetibile fascino, con le strade piene di bancarelle e di forestieri, con una grande fiera che si prolungava fino alle parti più lontane dell'abitato, la solenne processione notturna e i grandiosi fuochi di artificio. Nell'infanzia, tutto ciò sembra dieci volte, cento volte più bello.
Un po' più in là con gli anni, ricordo quell'angolo della sala da pranzo dove gran parte della famiglia si riuniva, la sera dopo cena, per ascoltare la prima piccola radio, grande come un vocabolario, che Vito, il primogenito, era riuscito a comprare con uno dei suoi primi stipendi.
Ascoltavamo estasiati, anche per due ore, qualche radiodramma o qualche commedia, e nessuno fiatava per non perdere una sfumatura di voce o un rumore particolare, come una porta sbattuta, o un suono di posate, al tavolo, o una voce che chiamava da lontano.
Ricordo drammi alla Jane Eyre o Cime Tempestose delle sorelle Bronte, commedie veneziane di Goldoni con Cesco Baseggio, o genovesi di Gilberto Govi, o napoletane del grande Eduardo De Filippo, che poi avremmo goduto, venti anni dopo, alla televisione. E venti anni dopo ancora, non avremmo più goduto, perché scomparse dalla scena, sostituite da insulsi talk show, o, peggio ancora, da insensati reality show (continua).
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