Quando c'erano le grandi feste, ad Acuto, due o tre volte all'anno (15 agosto, l'Assunzione; 22 settembre, San Maurizio; e ogni tanto qualche anniversario speciale), arrivavano mercivendoli da ogni parte, e in periferia c'era anche il commercio di animali: cavalli, muli, asini, pecore, capre, maiali, bovini, conigli e altri ancora.
Ma a noi bambini interessavano altre cose: le giostre, prima di tutto, con caroselli, tiri a segno, pugno di ferro, lancio degli anelli con piccoli pesci rossi in premio e tante altre fantasiose invenzioni.
Un anno, mi ricordo, proprio di fronte al negozio di mio padre al corso Umberto, venne un ambulante che portava con sé una semplice tavola di legno, in cui erano cinque o sei tondini circondati da chiodi: se, lanciando una moneta, facevi centro, ti davano come premio cinque volte il valore della stessa moneta che era incollata in fondo al tondino.
Chissà perché, quel marchingegno colpì la mia immaginazione. E allora, mentre mio padre era tutto preso dalla contrattazione con un cliente, io andai zitto zitto al cassetto, presi una moneta da mezza lira, e andai a lanciarla sulla tavola chiodata dell'ambulante. Naturalmente feci cilecca.
Non contento, tornai al cassetto di mio padre, presi un'altra moneta, non importa
di quale taglia, riprovai, e l'esito fu lo stesso.
Forse al terzo colpo, qualcuno notò che un bambino di otto anni stava giocando d'azzardo, sia pure con monete di piccolo taglio, e corse a riferire la cosa a mio padre nel negozio che era lì di fronte all'ambulante.
Mio padre, pazientemente, mi attese: appena aprii il cassetto, mi si parò davanti, mi afferrò per un braccio, e mi fece una solenne ramanzina davanti a tutti gli avventori incuriositi e all'amico che aveva denunciato l'accaduto al legittimo proprietario del cassetto.
Una lezione bruciante, che ricordai per tutta la vita. Forse è di lì che è nata in me l'avversione per qualunque gioco di denaro, perfino della schedina del totocalcio o del gioco del lotto, e la convinzione che risparmiare il denaro delle giocate sia la vera vincita che qualcuno possa fare.
Recentemente, con un gruppo di amici, per un paio d'anni abbiamo giocato al lotto
delle piccole cifre, utilizzando il denaro delle vincite per andare a pranzo con le nostre consorti. Ma poi ci siamo resi conto che, con i soldi delle giocate, avremmo potuto pagare non uno, ma quattro pranzi. E così abbiamo finito col non farne più nemmeno uno.
In realtà, si gioca non tanto per la vincita, quanto per il gusto del gioco. Era quella la molla che mi spingeva ad andare al cassetto di mio padre e rubarne qualche monetina, che lui non mi avrebbe mai regalato per non farmi correre il rischio di un vizio che in età infantile può essere assai pericoloso.
La stessa dinamica di gioco delle monete era quella d'infilare dei piccoli anelli metallici sul collo dei pupazzi piazzati sul bancone a una certa distanza. In questo caso il premio consisteva non in denaro,ma in un simpatico pesciolino rosso fornito in una busta trasparente piena d'acqua. Una volta, riuscii a vincerlo con mia grande gioia, e poi a perderlo con gran dispiacere per non essere riuscito a nutrirlo (continua).
Nessun commento:
Posta un commento