Ogni tanto scrivevamo anche delle lettere ai nostri familiari. Questa corrispondenza non veniva vista molto di buon occhio dai nostri superiori, in quanto il loro intento era quello di favorire il più possibile il nostro graduale distacco dalle famiglie.
I superiori sapevano benissimo che il mese che ci veniva concesso, a luglio, di tornare in seno ai nostri familiari, finiva per distruggere gran parte di questa delicata attenzione al nostro progressivo diradarsi degli affetti e dei legami. Un vero sacerdote deve trovare la propria famiglia nel prossimo, soprattutto nei poveri da aiutare, e deve prepararsi con molta cura a questo difficile programma.
Però le ferie erano necessarie per mille ragioni, anche per gli stessi superiori che certamente avevano bisogno di ricaricare le proprie energie con una lunga vacanza.
Per il resto, grande era l'attenzione ai contatti dei giovani con i propri cari. Era concesso solo un incontro settimanale di un'ora o due la domenica fra le 9 e le 11, anche per un po' di rifornimenti alimentari che alleggerivano il compito del padre economo nei confronti del nostro eterno appetito.
Le nostre richieste alle famiglie erano consentite solo tramite lettere. L'uso del telefono non era neanche lontanamente concepito. Non c'era telefono, in seminario: anche il padre rettore doveva servirsi del telefono pubblico per qualsiasi evenienza.
Per questo le nostre lettere assumevano una certa importanza. La corrispondenza era controllata strettamente, e penso censurata. Le lettere in arrivo ci venivano consegnate aperte. E anche noi, da parte nostra, dovevamo consegnare aperte le buste delle lettere in partenza. Forse anche per questo la corripondenza era rarefatta, ridotta veramente al minimo.
Io scrivevo qualche volta al mio fratello maggiore, Vito, che aveva ventiquattro anni e faceva le veci di mio padre, morto uno o due anni prima. Amavo molto leggere, e avevo chiesto a mio fratello che mi comprasse il libro geografico "Il bel paese" dell'abate Stoppani. Ricordo che questa mia richiesta era insistente, e lui invece finì per comprarmi tre enormi volumi di Teodoro Mommsen sulla storia di Roma antica, in una edizione ancora di epoca fascista, che sicuramente aveva trovato alla Fiera del Libro in via delle Terme di Diocleziano a Termini.
Me li fece trovare durante le vacanze estive credo nel 1948, come premio alla mia brillante licenza media.
I miei potevano venire molto raramente a trovarmi. Ricordo che un paio di volte venne la mia sorella maggiore Isola, accompagnata dal suo fidanzato. Erano ancora tempi di estrema povertà, e mi portava delle mele anurche rosso acceso, che mi piacevano molto e per cui le ero molto grato.
Mia madre, rimasta vedova con ben sette figli tutti giovanissimi, era assai impegnata: doveva curare anche il negozio di tessuti che ci rimaneva in Acuto, sempre più decadente, anche perché ormai la famiglia era decisa a trasferirsi a Roma, dove almeno un altro figlio, oltre al primogenito, avrebbe trovato lavoro e avrebbe consentito a tutti di vivere un po' più agevolmente nella capitale.
Da questo calcolo io ovviamente ero escluso, in quanto tutti erano convinti che io sarei rimasto in seminario. Ma, come vedremo, le cose presero poi una piega diversa.
I superiori sapevano benissimo che il mese che ci veniva concesso, a luglio, di tornare in seno ai nostri familiari, finiva per distruggere gran parte di questa delicata attenzione al nostro progressivo diradarsi degli affetti e dei legami. Un vero sacerdote deve trovare la propria famiglia nel prossimo, soprattutto nei poveri da aiutare, e deve prepararsi con molta cura a questo difficile programma.
Però le ferie erano necessarie per mille ragioni, anche per gli stessi superiori che certamente avevano bisogno di ricaricare le proprie energie con una lunga vacanza.
Per il resto, grande era l'attenzione ai contatti dei giovani con i propri cari. Era concesso solo un incontro settimanale di un'ora o due la domenica fra le 9 e le 11, anche per un po' di rifornimenti alimentari che alleggerivano il compito del padre economo nei confronti del nostro eterno appetito.
Le nostre richieste alle famiglie erano consentite solo tramite lettere. L'uso del telefono non era neanche lontanamente concepito. Non c'era telefono, in seminario: anche il padre rettore doveva servirsi del telefono pubblico per qualsiasi evenienza.
Per questo le nostre lettere assumevano una certa importanza. La corrispondenza era controllata strettamente, e penso censurata. Le lettere in arrivo ci venivano consegnate aperte. E anche noi, da parte nostra, dovevamo consegnare aperte le buste delle lettere in partenza. Forse anche per questo la corripondenza era rarefatta, ridotta veramente al minimo.
Io scrivevo qualche volta al mio fratello maggiore, Vito, che aveva ventiquattro anni e faceva le veci di mio padre, morto uno o due anni prima. Amavo molto leggere, e avevo chiesto a mio fratello che mi comprasse il libro geografico "Il bel paese" dell'abate Stoppani. Ricordo che questa mia richiesta era insistente, e lui invece finì per comprarmi tre enormi volumi di Teodoro Mommsen sulla storia di Roma antica, in una edizione ancora di epoca fascista, che sicuramente aveva trovato alla Fiera del Libro in via delle Terme di Diocleziano a Termini.
Me li fece trovare durante le vacanze estive credo nel 1948, come premio alla mia brillante licenza media.
I miei potevano venire molto raramente a trovarmi. Ricordo che un paio di volte venne la mia sorella maggiore Isola, accompagnata dal suo fidanzato. Erano ancora tempi di estrema povertà, e mi portava delle mele anurche rosso acceso, che mi piacevano molto e per cui le ero molto grato.
Mia madre, rimasta vedova con ben sette figli tutti giovanissimi, era assai impegnata: doveva curare anche il negozio di tessuti che ci rimaneva in Acuto, sempre più decadente, anche perché ormai la famiglia era decisa a trasferirsi a Roma, dove almeno un altro figlio, oltre al primogenito, avrebbe trovato lavoro e avrebbe consentito a tutti di vivere un po' più agevolmente nella capitale.
Da questo calcolo io ovviamente ero escluso, in quanto tutti erano convinti che io sarei rimasto in seminario. Ma, come vedremo, le cose presero poi una piega diversa.
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