Agli occhi di noi giovanissimi di undici dodici anni, i seminaristi più grandi, quelli della quarta e quinta camerata, cioè del quarto e quinto ginnasio, apparivano come un mondo a sé.
Intanto, a quel punto, l'abito talare, cioè la lunga veste nera con tanti bottoncini, era di rigore: questo significava che era stato fatto un passo in avanti molto importante sulla via della vocazione. Indossare la veste talare costituiva dunque una sorta d'impegno supplementare, maturato in due o tre anni di collegio in più.
La selezione naturale, di anno in anno, era notevole: si partiva da dodici in prima media, si arrivava in nove in seconda, in sette in terza; al momento d'indossare quella veste così impegnativa, si arrivava al massimo in cinque, e poi, al tirar delle somme del quinquennio di seminario diocesano, si accedeva al seminario regionale, il Leoniano, sempre di Anagni, con una media di tre alunni su dieci.
Altri quattro anni di aspra selezione, ed ecco veramente quel solo sacerdore su dieci aspiranti iniziali. Chi arrivava all'altare del Signore, doveva essere veramente convinto di quello che faceva.
A noi giovanissimi, dunque, i ragazzi di diciotto anni con tanto di veste talare facevano una profonda impressione.
Ne ricordo bene solo qualcuno: un Galeassi di Albano, il "grifagno", come lo definiva un dirigente; un Curti di Roma. Costoro avevano intorno a sé come un'aura di rispetto. Si diceva che fossero dei privilegiati, dei predestinati. Specialmente Curti, di buonissima famiglia, di educazione raffinata, era considerato uno dal sicuro avvenire, che si sarebbe fatto largo in Vaticano. Li accostavamo con un certo rispetto, e la richiesta dei loro pareri era considerata quasi un privilegio.
Erano talmente pochi, d'altra parte, che facevano quasi vita a sé, andavano a passeggio per conto loro, aveano perfino delle camerette riservate per i loro studi, che cominciavano ad essere veramente impegnativi. Erano insieme a noi soltanto in cappella per la messa, in refettorio per i pasti e in qualche occasione speciale, come le gite o le lunghe passeggiate a piedi che potevano durare un'intera giornata.
Noi più giovani, dunque, venivamo considerati quasi dei collegiali, degli aspiranti, più che dei veri seminaristi. Venivamo seguiti moltissimo e con grande cura nella nostra educazione, ma senza forzature, sicché la vocazione, se c'era, potesse svilupparsi in modo armonioso e graduale. I seminari furono istituiti alle soglie del Seicento, in clima di Controriforma, da San Carlo Borromeo, con una visione sicuramente molto più umanistica e ragionevole di quanto non si pensi. Nulla di severo e di gesuitico, molto di formativo, con possibilità di ripensamento che non fosse traumatico. Almeno, da noi era così, e le figure dei nostri dirigenti, rettore, vicerettore, padri confessori e padri spirituali, e i giovani sacerdoti che avevano la funzione di prefetti, avevano un atteggiamento e un aspetto molto umano, che a distanza di tantissimi anni io posso giudicare in modo positivo. Quei mei anni mi tornano in mente senza dispiacere, spesso anzi con un po' di rimpianto. E non sono divenuto anticlericale, come capita a moltissimi che hanno trascorso la loro adolescenza in un collegio tenuto dai preti.
Intanto, a quel punto, l'abito talare, cioè la lunga veste nera con tanti bottoncini, era di rigore: questo significava che era stato fatto un passo in avanti molto importante sulla via della vocazione. Indossare la veste talare costituiva dunque una sorta d'impegno supplementare, maturato in due o tre anni di collegio in più.
La selezione naturale, di anno in anno, era notevole: si partiva da dodici in prima media, si arrivava in nove in seconda, in sette in terza; al momento d'indossare quella veste così impegnativa, si arrivava al massimo in cinque, e poi, al tirar delle somme del quinquennio di seminario diocesano, si accedeva al seminario regionale, il Leoniano, sempre di Anagni, con una media di tre alunni su dieci.
Altri quattro anni di aspra selezione, ed ecco veramente quel solo sacerdore su dieci aspiranti iniziali. Chi arrivava all'altare del Signore, doveva essere veramente convinto di quello che faceva.
A noi giovanissimi, dunque, i ragazzi di diciotto anni con tanto di veste talare facevano una profonda impressione.
Ne ricordo bene solo qualcuno: un Galeassi di Albano, il "grifagno", come lo definiva un dirigente; un Curti di Roma. Costoro avevano intorno a sé come un'aura di rispetto. Si diceva che fossero dei privilegiati, dei predestinati. Specialmente Curti, di buonissima famiglia, di educazione raffinata, era considerato uno dal sicuro avvenire, che si sarebbe fatto largo in Vaticano. Li accostavamo con un certo rispetto, e la richiesta dei loro pareri era considerata quasi un privilegio.
Erano talmente pochi, d'altra parte, che facevano quasi vita a sé, andavano a passeggio per conto loro, aveano perfino delle camerette riservate per i loro studi, che cominciavano ad essere veramente impegnativi. Erano insieme a noi soltanto in cappella per la messa, in refettorio per i pasti e in qualche occasione speciale, come le gite o le lunghe passeggiate a piedi che potevano durare un'intera giornata.
Noi più giovani, dunque, venivamo considerati quasi dei collegiali, degli aspiranti, più che dei veri seminaristi. Venivamo seguiti moltissimo e con grande cura nella nostra educazione, ma senza forzature, sicché la vocazione, se c'era, potesse svilupparsi in modo armonioso e graduale. I seminari furono istituiti alle soglie del Seicento, in clima di Controriforma, da San Carlo Borromeo, con una visione sicuramente molto più umanistica e ragionevole di quanto non si pensi. Nulla di severo e di gesuitico, molto di formativo, con possibilità di ripensamento che non fosse traumatico. Almeno, da noi era così, e le figure dei nostri dirigenti, rettore, vicerettore, padri confessori e padri spirituali, e i giovani sacerdoti che avevano la funzione di prefetti, avevano un atteggiamento e un aspetto molto umano, che a distanza di tantissimi anni io posso giudicare in modo positivo. Quei mei anni mi tornano in mente senza dispiacere, spesso anzi con un po' di rimpianto. E non sono divenuto anticlericale, come capita a moltissimi che hanno trascorso la loro adolescenza in un collegio tenuto dai preti.
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