giovedì 17 marzo 2011

Vita di collegio: 11. Non uscire da quella Cappella

Durante la messa del mattino, dalle 7 alle 7 e tre quarti, era severamente vietato uscire da quella Cappella.
Ciononostante, non erano pochi i ragazzi che, alla spicciolata, riuscivano a superare il divieto e a recarsi al bagno per un bisogno improvviso. Non c'era modo né possibilità d'impedirlo.
Questo bisogno, io sembravo non avvertirlo. Non sono mai andato al bagno, in quei tre quarti d'ora. Però una volta successe anche a me di avvertire un impellente bisogno di fare un goccio d'acqua. Anzi, più di un goccio...
Fra il divieto assoluto di uscire e il bisogno di orinare, vinse quest'ultimo: fino all'ultimo volli obbedire ai miei superiori, e così, fatalmente, consapevolmente, finii per farmela addosso. E anche abbondantemente.
I miei pantaloncini ne rimasero quasi completamente intrisi. Io finsi di nulla, e nei pochissimi minuti di ricreazione prima di scendere in refettorio per la colazione riuscii a fare un salto in camerata, raggiungere il mio armadietto, asciugarmi e cambiarmi sia lo slip che i calzoncini.
Nessuno si accose di nulla? Secondo me è impossibile. Ma nessuno mi disse niente. Non so che cosa possa aver pensato chi se ne accorse: ma nessuno mi diede la medaglia di eroe, bensì quella di pollo.L'obbedienza va bene, ma non fino a questo punto.
Non ero incontinente. Non ho mai fatto la pipì a letto, a quel che ricordo. C'era un mio amico, Luigi Canali, che invece soffriva molto per questo piccolo/grande guaio. Aveva vissuto una prima infanzia tribolata, negli anni di guerra, sbattuto tra la Libia, la Francia e l' Italia, e gli era rimasto questo inconveniente, dal quale riuscì a guarire soltanto con l'età dello sviluppo, a quattordici anni. Dovevano cambiargli materasso e rete della branda almeno una volta all'anno, perché letteralmente li distruggeva. Si vergognava, ma noi ormai non ci facevamo più caso e anzi cercavamo di aiutarlo: era soltanto vittima di colpe altrui.
Tra i dodici ragazzi della nostra camerata si era creato un forte spirito di corpo. Agivamo come se fossimo una sola persona, e se avevamo qualche colpa cercavamo sempre di risponderne collettivamente.
Monsignor Salina conosceva meglio di noi la situazione di Luigi Canali, e cercava di proteggerlo e aiutarlo con un ammirevole spirito paterno. Ogni tanto gli regalava uno dei suoi famosi "tabacchini", cioè qualche vecchissimo libro di preghiere, o di autori latini, o di saggi antichi, rilegati in pelle ed emananti un caratteristico odore di muffa, tratto dagli scaffali della "Siberia", cioè della soffitta di palazzo.
Devo confessare che il dono di quei libri così particolari da parte di monsignor Salina al caro amico Luigi generava in me un senso insoffocabile d'invidia e di gelosia, che non riuscivo a dominare, malgrado capissi benissimo il significato generoso e nobile di quei piccoli regali.
In quel periodo, in Vaticano, c'era appunto un cardinal Canali, tra i più eminenti della Chiesa. Sapevamo che il cardinal Canali conosceva il nostro Luigi e ne seguiva la formazione con simpatia. E anche di questo noi eravamo un po' invidiosi: ma questo genere d'invidia non ha mai intaccato il grande affetto per il nostro amico Canali, anche dopo tantissimi anni (oggi sono addirittura sessanta)
che abbiamo lasciato tutti il nostro seminario.

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