La nostra era una vita di studio e di preghiera, ma anche di ricreazione. Ne usufruivamo due o tre volte al giorno. La mattina c'era ricreazione fra mezzogiorno e l'una, cioè dopo quattro ore di lezione e prima dell'ora di pranzo.
Ce ne stavamo in camerata, dove, oltre alle file di lettini, c'era uno spazio con tavoli da ping pong e altri tavolini dove si poteva scrivere e giocare a dama.
Al ping pong dedicavamo molto tempo, organizzando veri e propri tornei di singolo e di doppio. All'inizio il nostro gioco era piuttosto poverello, ma poi piano piano si era scaltrito e ne uscivano fuori partite molto appassionanti.
Un secondo orario ricreativo era alle quattordici, dopo il pranzo. In genere ce ne andavamo a giocare al calcio nel grande piazzale sottostante al bellissimo campanile romanico, sul lato destro della cattedrale. Un lungo muretto recingeva tutto quel lato, per una trentina di metri: subito sotto c'era l'uliveto di un signorotto locale imparentato con dignitari ecclesiastici anagnini, e di fronte c'era un ampio panorama dei monti Ernici, con il mio caro paese di Acuto che dominava la scena e sembrava poco lontano da lì, forse tre o quattro chilometri in linea d'aria rispetto ai sedici che percorreva la strada costretta a costeggiare tutta l'ampia montagna di Porciano ("Portianum", da Marco Porcio Catone).
Questo scenario è magnificamente riprodotto in un romanzo del mio compaesano Patrizio Pilozzi, intitolato "Gli schiaffi di Anagni". Anche lui seminarista due o tre anni dopo di me, anche lui impegnato nel gioco del calcio nell'ampio cortile, e poi innamoratosi della bellissima e giovane figlia del signorotto che era proprietario
dell'oliveto sottostante.
La storia si ripete. Il buon Patrizio, scoperto per la sua cocente passione per la mitica Chiara, fu costretto a lasciare il seminario al termine del suo quarto anno.
Infatti il pallone, spesso spesso, finiva nel campo sottostante, e chi ce lo aveva spedito era costretto a saltare il muretto per andare a raccoglierlo. Lì Patrizio ebbe l'avventura d'incontrare Chiara, e fu la sua fine. O il suo inizio?
Dopo un'ora e mezza di gioco, alle quindici e trenta, si rientrava tutti nel salone dello studio, per restarvi fino all'ora di cena, cioè fino alle venti. Almeno quattro ore intense di preparazione alle lezioni del giorno successivo.
Ognuno di noi aveva un suo scrittoio con il piano inclinato e ribaltabile, e all'interno si riponevano libri, quaderni e vocabolari. Erano almeno una dozzina di file di scrittoi: questi erano sei per ogni fila, per un totale di oltre settanta studenti.
Il vasto salone era controllato da una cattedra doppia, dove vigilavano il vicerettore e un prefetto, che era un giovane sacerdote; in fondo al salone, una finestrella ad arco
si apriva dallo studio del rettore don Giovanni Salina, che ogni tanto l'apriva, o per vigilare se sentiva qualche rumore, oppure per chiedere qualche cortesia a uno dei seminaristi più anziani, che naturalmente erano piazzati nelle ultime file.
Una campanella, quanto mai attesa, segnalava alle venti l'inizio della cena, per la quale si scendeva compatti, in file silenziose, i due piani che ci separavano dal refettorio in fondo all'antico palazzo.
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