In seminario si consumavano tre pasti al giorno: colazione alle 8, pranzo alle 13, cena alle 20. Precisione cronometrica.
Il refettorio era un enorme stanzone, con due lunghissime file di tavoli, tutti rigorosamente di marmo, cinquanta da un lato, cinquanta dall'altro. Nei lati minori, in alto era la mensa del rettore e degli altri dirigenti (vicerettore, economo, insegnanti e prefetti), per un totale di dodici posti, mentre in fondo al salone c' era una grande ruota che metteva in comunicazione la cucina, tenuta da cinque o sei suore, con gli addetti alle mense, che erano a turno i seminaristi più grandi.
Al centro dell'enorme salone (circa 25 metri per 12), c'era un grande tavolo dove all'inizio del pasto si accomodava un alunno incaricato di leggere il martirologio in latino, cioè l'elenco di tutti i santi del giorno con brevi cenni della loro vita. Come premio, a lettura ultimata, riceveva dal rettore un quartino di vino, riservato ai soli dirigenti.
Di solito, poi, veniva concesso il permesso a tutti di scambiare qualche parola a voce contenuta, ma in particolari periodi, come la quaresima, la lettura proseguiva per tutto il pasto, di solito con edificanti vite di santi o con testi più impegnativi di carattere sociale.
Il refettorio, capace di contenere 120 persone, normalmente ne ospitava una ottantina, circa settanta alunni e in media dieci dirigenti.
L'economo, don Giacinto Centra, di Carpineto Romano, un tipo gioviale e simpatico, ma che sapeva farsi rispettare, specialmente nei primi anni, 1945-1948, cioè nell'immediato dopoguerra, doveva fare i salti mortali per approvvigionarsi adeguatamente. Era bravo, e quasi sempre ci riusciva. Il resto lo facevano le suore, riservate e competenti, che sapevano far fruttare le modeste vivande.
Per noi che venivamo da famiglie provatissime dalla guerra, i pasti del collegio erano quasi provvidenziali.
Caffellatte un po' annacquato (ma molto meno che negli ospedali di oggi...) a colazione, con fette di pane abbrustolito. Il pranzo consisteva in una minestra con cannolicchi, piuttosto saporita, e due volte a settimana, giovedì e domenica, pasta asciutta. C'era poi un secondo con verdura: talora pesce, una o due volte carne, altrimenti una bella fetta di formaggio fresco, integrati da bieta, o insalata, o patate oppure legumi. Una mela o un altro frutto concludeva il pasto.
In serata, minestrina leggera, verdura, formaggio, e un frutto. Ragazzi in buona
salute, dagli undici ai diciotto anni, sempre affamati, trovavano poi un complemento verso le sedici, quando era prevista una merenda consumata in uno stanzone particolare, con alimenti portati di settimana in settimana dai genitori e familiari. C'era per questo un apposito ricevimento la mattina della domenica, dalle 9 alle 11.
La vita era regolata da pendole precise al capello, sistemate nei lunghi ed oscuri corridoi. Nulla veniva lasciato all'imprevisto.
Talvolta, però, qualche piccolo disguido accadeva. Come quella volta che don Giacinto credette di aver fatto un buon affare con una grossa partita di fagioli bulgari. Ce li proposero una sera a cena. Ma questi fagioli avevano le ali, nel senso che erano tutti con l'occhio, abitati cioè da piccoli insetti che li rendevano immangiabili.
Era di maggio, e provammo a fare un fioretto mangiandoli. Ma non ci riusciva nessuno. Io ero nei primi posti della fila, e vedevo don Giacinto che si agitava. Feci l'eroe e dissi ai ragazzi vicini: - Tanto dobbiamo mangiarli, bene o male. Facciamo questo sacrificio -
Don Giacinto mi sentì, si alzò in piedi e mi venne vicino. - Bravo Giancicco! - (mi chiamava così).
Quell'atto di coraggio convinse don Giacinto a ritirare tutti i fagioli (i maiali curati dalle suore insieme a polli e conigli ebbero un pasto eccezionale per un po' di tempo), sostituendoli con un buon pezzo di formaggio fresco.
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