Come seminarista, ho sempre sentito il peso del fatto che due miei fratelli più grandi, Vito e Silvestro, mi avessero preceduto per quella via e poi, per un motivo o per un altro, avessero entrambi abbandonato il percorso verso il sacerdozio.
Sentivo dentro di me questo grave peso, e avevo l'impressione che monsignor Salina, il rettore, pensasse la stessa cosa di me. Ecco, arriva un terzo fratello, compie tutto il percorso degli studi, e poi, una volta ottenuto il titolo di studio, se ne andrà sfruttando e rendendo vano tutto il nostro lavoro. Intanto, i miei fratelli avevano compiuto solo due o tre anni di studio, e non l'intero percorso. Per il resto, avevano dovuto rimediare da soli.
Non potevo pensare che ci fossero situazioni anche più pesanti, e che tuttavia erano del tutto normali e giustificabili: nella famiglia Pilozzi, sempre di Acuto, sei fratelli passeranno tutti per quella via, ed uno soltanto, alla fine, diventerà sacerdote: l'umile, generoso, e veramente evangelico don Angelo.
Sarà forse stato il clima di crociata del 1948, e il sentimento che nutrivo dentro di me che i miei due fratelli fossero oltretutto socialisti, cioè anticlericali, sta di fatto che a un certo punto scrissi una lettera ai miei cari, ben sapendo che essa sarebbe stata controllata e quindi spedita, nella quale mi impegnavo a "lavare l'onta" dei due precedenti insuccessi. Parlavo di "onta", cioè di vergogna, giudicando che i miei due fratelli avessero fatto quella scelta in maniera consapevole: una specie di truffa bene organizzata.
Infatti mio fratello Vito, l'anno dopo, mi rimproverò quella parola, ritenendola ingiusta e magari tale da poter essere ritorta contro di me.
Con il senno di poi, voglio riconoscere che quella lettera deve essere considerata poco sincera, freudianamente, mirata più a farmi benvolere dai direttori che a comunicare veramente ai miei il mio dispiacere di trovarmi in quella situazione, che non aveva proprio niente di anomalo.
Se i miei dirigenti fossero stati veramente in gamba, invece di lasciar partire quella lettera così imbarazzante avrebbero dovuto chiamarmi, e con delicatezza cercare di sapere che cosa mi passava veramente per la testa, e certamente avrebbero potuto prefigurare quello che sarebbe accaduto di lì a poco, cioè il mio desiderio di lasciare quella strada da me ritenuta forse inadatta al mio carattere.
Sì, questo è davvero senno di poi. Le cose vanno come devono andare. Gira e rigira, alla fine, se"onta" c'é stata, è stata tutta mia. Bisogna avere il coraggio delle proprie azioni, e ponderare bene prima di decidere, perché nella vita ci sono dei momenti in cui una decisione vale una volta per sempre e non si deve mai avere voglia di rimpianti.
Era il 1948. Avevo quattordici anni. Ma già si stava preparando il mio destino.
Sentivo dentro di me questo grave peso, e avevo l'impressione che monsignor Salina, il rettore, pensasse la stessa cosa di me. Ecco, arriva un terzo fratello, compie tutto il percorso degli studi, e poi, una volta ottenuto il titolo di studio, se ne andrà sfruttando e rendendo vano tutto il nostro lavoro. Intanto, i miei fratelli avevano compiuto solo due o tre anni di studio, e non l'intero percorso. Per il resto, avevano dovuto rimediare da soli.
Non potevo pensare che ci fossero situazioni anche più pesanti, e che tuttavia erano del tutto normali e giustificabili: nella famiglia Pilozzi, sempre di Acuto, sei fratelli passeranno tutti per quella via, ed uno soltanto, alla fine, diventerà sacerdote: l'umile, generoso, e veramente evangelico don Angelo.
Sarà forse stato il clima di crociata del 1948, e il sentimento che nutrivo dentro di me che i miei due fratelli fossero oltretutto socialisti, cioè anticlericali, sta di fatto che a un certo punto scrissi una lettera ai miei cari, ben sapendo che essa sarebbe stata controllata e quindi spedita, nella quale mi impegnavo a "lavare l'onta" dei due precedenti insuccessi. Parlavo di "onta", cioè di vergogna, giudicando che i miei due fratelli avessero fatto quella scelta in maniera consapevole: una specie di truffa bene organizzata.
Infatti mio fratello Vito, l'anno dopo, mi rimproverò quella parola, ritenendola ingiusta e magari tale da poter essere ritorta contro di me.
Con il senno di poi, voglio riconoscere che quella lettera deve essere considerata poco sincera, freudianamente, mirata più a farmi benvolere dai direttori che a comunicare veramente ai miei il mio dispiacere di trovarmi in quella situazione, che non aveva proprio niente di anomalo.
Se i miei dirigenti fossero stati veramente in gamba, invece di lasciar partire quella lettera così imbarazzante avrebbero dovuto chiamarmi, e con delicatezza cercare di sapere che cosa mi passava veramente per la testa, e certamente avrebbero potuto prefigurare quello che sarebbe accaduto di lì a poco, cioè il mio desiderio di lasciare quella strada da me ritenuta forse inadatta al mio carattere.
Sì, questo è davvero senno di poi. Le cose vanno come devono andare. Gira e rigira, alla fine, se"onta" c'é stata, è stata tutta mia. Bisogna avere il coraggio delle proprie azioni, e ponderare bene prima di decidere, perché nella vita ci sono dei momenti in cui una decisione vale una volta per sempre e non si deve mai avere voglia di rimpianti.
Era il 1948. Avevo quattordici anni. Ma già si stava preparando il mio destino.
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