Due o tre volte all'anno, ogni camerata organizzava una lunga gita a piedi che durava tutta una giornata: partenza al mattino alle 8, pranzo al sacco nella località prescelta come meta, ritorno prima delle sette della sera. Si andava a visitare una paese vicino, nel raggio dei venti chilometri, oppure una località particolare, come una fonte termale o un' abazia. Le gite erano previste nei mesi primaverili e del primo autunno, quando le temperature erano miti e le giornate abbastanza lunghe.
Una volta, perciò, fu deciso di scegliere come meta della gita proprio Acuto, cioè il mio paese. Grande fu la mia gioia. I sedici chilometri che separano Anagni da Acuto costeggiano la grande montagna di Porciano rivestita interamente di boschi di castagni e di lecci, con la vallata sottostante che è davvero pittoresca, specialmente nei punti in cui è più selvaggia e solitaria, stretta e impenetrabile assai più di un canyon: somiglia a un fiordo norvegese senza il fondo marino, sostituito dai residui di un antico ruscello inaridito, salvo il periodo delle grandi piogge.
In linea d'aria i sedici chilometri si riducono a quattro o cinque, però impercorribili direttamente data la ripidità della montagna. Invece la strada costruita appositamente nell'Ottocento è abbastanza ampia e pittoresca, assai piacevole da percorrere a piedi.
Arrivati lassù, un lieto scampanio ci
Quando fu mezzogiorno, arrivammo finalmente sulla vetta del Colle Borano, dove in quei tempi era situata una piccola stazioncina sulla ferrovia Roma-Fiuggi che doveva servire come scalo verso Anagni. Il nome deriva quasi sicuramente dalla pietra ricca di boro, dal quale si ricava l'acido borico o il talco borato.
accolse. Io mi misi a gridare con una gioia infantile: -Le campane di Acuto! Le campane di Acuto! -
Sì, erano proprio loro, le inconfondibili amiche della mia infanzia: quelle festose e profonde di Santa Maria, quelle più leggere e allegre di San Pietro. Il panorama di Acuto dominava la scena sulla cima
del suo grande colle, disteso, come dice la canzone dei Ricchi e Poveri, come un vecchio addormentato, il vecchio, millenario paese di Acuto.
Per me era davvero una gioia immensa e fanciullesca, e perciò rimasi amareggiato nel sentire che un mio compagno, Piero Cefaloni di Gorga, mi canzonava apertamente ripetendo le mie parole. Ne rimasi umiliato e confuso, ma fu soltanto un momento: poi la mia gioia prevalse.
Sui verdi prati di Colle Borano, oggi proprietà del caro collega Patrizio Pilozzi, consumammo un bel pranzo al sacco, allietato anche da un bicchiere di vino fresco e leggero. Poi visitammo il paese, che piacque molto a tutti i miei compagni di Morolo, di Anagni, di Gorga, di Sgurgola e di tutti gli altri paesi della diocesi.
Quella fu davvero una bella giornata, per me. La stanchezza di oltre trenta chilometri a piedi non fu avvertita da nessuno: soltanto il calzolaio vicino al seminario dovette fare gli straordinari, quella settimana, sulle nostre scarpe. Ne avevamo due paia ciascuno, proprio lo stretto necessario per cambiarle e ripararle, lasciando le migliori per i giorni festivi.
A lustrare le nostre scarpe dovevamo pensare assiduamente tutti i giorni: rovesciavamo la nostra seggiola in dotazione in camerata, e ognuno di noi doveva lavorare abbastanza in profondità con spazzola e lucido per ridare brillantezza alle nostre calzature. I prefetti controllavano con una certa attenzione che il nostro lavoro venisse effettuato con la necessaria cura: altrimenti ci scappava un rimprovero e talora anche una piccola punizione, come restare senza frutta a cena.
Una volta, perciò, fu deciso di scegliere come meta della gita proprio Acuto, cioè il mio paese. Grande fu la mia gioia. I sedici chilometri che separano Anagni da Acuto costeggiano la grande montagna di Porciano rivestita interamente di boschi di castagni e di lecci, con la vallata sottostante che è davvero pittoresca, specialmente nei punti in cui è più selvaggia e solitaria, stretta e impenetrabile assai più di un canyon: somiglia a un fiordo norvegese senza il fondo marino, sostituito dai residui di un antico ruscello inaridito, salvo il periodo delle grandi piogge.
In linea d'aria i sedici chilometri si riducono a quattro o cinque, però impercorribili direttamente data la ripidità della montagna. Invece la strada costruita appositamente nell'Ottocento è abbastanza ampia e pittoresca, assai piacevole da percorrere a piedi.
Arrivati lassù, un lieto scampanio ci
Quando fu mezzogiorno, arrivammo finalmente sulla vetta del Colle Borano, dove in quei tempi era situata una piccola stazioncina sulla ferrovia Roma-Fiuggi che doveva servire come scalo verso Anagni. Il nome deriva quasi sicuramente dalla pietra ricca di boro, dal quale si ricava l'acido borico o il talco borato.
accolse. Io mi misi a gridare con una gioia infantile: -Le campane di Acuto! Le campane di Acuto! -
Sì, erano proprio loro, le inconfondibili amiche della mia infanzia: quelle festose e profonde di Santa Maria, quelle più leggere e allegre di San Pietro. Il panorama di Acuto dominava la scena sulla cima
del suo grande colle, disteso, come dice la canzone dei Ricchi e Poveri, come un vecchio addormentato, il vecchio, millenario paese di Acuto.
Per me era davvero una gioia immensa e fanciullesca, e perciò rimasi amareggiato nel sentire che un mio compagno, Piero Cefaloni di Gorga, mi canzonava apertamente ripetendo le mie parole. Ne rimasi umiliato e confuso, ma fu soltanto un momento: poi la mia gioia prevalse.
Sui verdi prati di Colle Borano, oggi proprietà del caro collega Patrizio Pilozzi, consumammo un bel pranzo al sacco, allietato anche da un bicchiere di vino fresco e leggero. Poi visitammo il paese, che piacque molto a tutti i miei compagni di Morolo, di Anagni, di Gorga, di Sgurgola e di tutti gli altri paesi della diocesi.
Quella fu davvero una bella giornata, per me. La stanchezza di oltre trenta chilometri a piedi non fu avvertita da nessuno: soltanto il calzolaio vicino al seminario dovette fare gli straordinari, quella settimana, sulle nostre scarpe. Ne avevamo due paia ciascuno, proprio lo stretto necessario per cambiarle e ripararle, lasciando le migliori per i giorni festivi.
A lustrare le nostre scarpe dovevamo pensare assiduamente tutti i giorni: rovesciavamo la nostra seggiola in dotazione in camerata, e ognuno di noi doveva lavorare abbastanza in profondità con spazzola e lucido per ridare brillantezza alle nostre calzature. I prefetti controllavano con una certa attenzione che il nostro lavoro venisse effettuato con la necessaria cura: altrimenti ci scappava un rimprovero e talora anche una piccola punizione, come restare senza frutta a cena.
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